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mercoledì 30 novembre 2011

Senegal. Se la musica un giorno...


La notizia che Youssou N’Dour dice addio alla musica per partecipare alle prossime elezioni presidenziali senegalesi non può passare inosservata. Il cinquantaduenne senegalese, infatti, non è una celebrità del pop solo africano, è qualcosa di più. Scoperto da Peter Gabriel con l’etichetta Real World e successivamente lanciato al grande successo internazionale con il pezzo Seven Seconds cantato in duetto assieme alla svedese Neneh Cherry, è l’emblema stesso dell’Africa viva e migliore. E che non accetta di essere colonizzata dall’Occidente “bianco” e avanzato. La voce particolare e il suo modo di danzare, lo mbalax, nato e cresciuto dai griot dell’etnia wolof, accompagnato dal sabar, uno strumento a percussione tradizionale, e ora con djembé e tamburi di derivazione più moderna, ha letteralmente reinventato il beat africano in favore di suoni e voci che fanno capire cosa potrebbe essere, oggi, l’Africa.
Un talento assoluto. Mentre altri artisti se ne sono andati dal loro paese, il suo studio di registrazione a Dakar, in terra senegalese, è un omaggio alla tecnica che crede nel futuro. I suoi musicisti sono senegalesi, ormai amati dalle grandi popstar internazionali.
Con Youssou N’Dour si balla ai concerti. Ci si muove, si entra in un coinvolgimento ritmico pazzesco, come quando si assiste alla messa domenicale della comunità congolese alla chiesa della Natività di Nostro Signore a Roma. La musica parla, insegna, appassiona, comunica amore. Quell’amore che il cantante vuole riversare nella politica. Dal prossimo 2 gennaio, infatti, spenderà tutte le forze affinché il suo movimento politico conquisti la fiducia del popolo e il prossimo 26 febbraio liberi il Senegal dal malgoverno dell’attuale capo di Stato, Abdoulaye Wade.
Da anni è uno dei portavoce del movimento anti-povertà, e si è battuto per la cancellazione del debito nei paesi africani e contro il razzismo insieme al suo amico Bono Vox degli U2.
Nato in uno slum di Dakar e figlio di un meccanico, ha dunque deciso di scendere in campo. La gente nel Senegal vive con appena tre dollari al giorno e la disoccupazione avanza. «Per me esistono due Senegal – ha detto Youssou N’Dour – Il Senegal dei non abbienti e quello dei ricchi. Ecco io mi preoccupo del Senegal dei non abbienti».
La musica in Africa è sempre stata la “voce” primordiale della coscienza collettiva. Prima con Mama Africa, cioè Miriam Makeba, poi con Salif Keita, solo per citare due grandi artisti. Ma ciò non deve meravigliare. Dalla magia del ritmo africano si spande un profumo che ha i sapori della solidarietà e dell’amicizia tra i popoli.
Chi non ha capito questo, in fondo, non ha capito l’Africa.

lunedì 28 novembre 2011

Sounds and silence

Le note sono appena sussurrate. I racconti reclamano spazi di contemplazione. Il grigio e il nero, i colori neutri di Ecm, la storica etichetta discografica che fin dalla sua fondzione, il 1969, ha cambiato letteralmente il senso della fruizione musicale nel mondo, abbondano anche in questo lavoro sospeso tra musica e immagini. Non poteva essere diversamente. Sounds and silence, il dvd che racconta la ormai quarantennale storia creativa dell'Ecm, è più di un film.
In realtà è un viaggio nel tempo, tra le strade impervie e bellissime della musica contemporanea. Ci sono le icone dell'est europeo, e Arvo Part, i brividi dell'alba boreale, e Jan Garbarek, il suono primordiale di una stanza vuota, e Manfred Heicher, le percussioni femminili che nascono dal cuore, e Marylin Mazur. Ci sono due italiani, un sassofonista e un fisarmonicista, che duellano e ridono a distanza.
C'è tanta musica. E antichissimo silenzio. Quello che vede "oltre". Che rinasce a nuova vita per ogni ascolto dell'anima.
Un film per pochi intimi. Da assaporare con la pianta del tè accanto. E dicendo grazie per tanto splendore.

sabato 26 novembre 2011

Storia di Sergio, immigrato "italiano"


Sergio è un uomo alto, possente, due mani che mostrano i segni della fatica. È ucraino, vive da molti anni a Roma (anzi, alla periferia di Roma, il comune di Cesano, lì i prezzi degli affitti sono più bassi) e si sbatte come pochi. Cerca lavoro dovunque capita, sa far di tutto: muratura, giardinaggio, traslochi, idraulico, elettricista. Cerca di imparare dovunque lo chiamino, e non si tira indietro, non rifiuta nulla, specialmente quello che gli italiani di solito rifiutano, ha una famiglia da mantenere.
 
Domenica scorsa ha tagliato la siepe della mia casa e pulito il giardino, un lavoro immane. Una macchina da guerra con falciatrici e forbici. E mentre sudava ha tirato fuori altri lavoretti: la gente, le vecchiette soprattutto, dai balconi dei palazzi di fronte lo chiamavano: «Signore, mi scusi, ha del tempo anche per me? Avrei la mia siepe…». Un successo clamoroso. Lui era contento.
 
All’ora del pranzo abbiamo mangiato insieme, come di domenica si usa, e come la mia famiglia di origine mi ha insegnato a fare. Si è divorato un piatto enorme di spaghetti e altrettanta carne, ricordandomi le porzioni gigantesche che fino a poco tempo fa mio padre, mio nonno e i miei zii, memori dei tempi contadini del dopoguerra, usavano ritagliarsi come giusta ricompensa della giornata passata. Poi è tornato subito al lavoro, una tazza di caffé e via.
 
Durante il pasto consumato con la mia famiglia mi ha raccontato della sua. Lui è protestante, fa parte della minoranza di un cristianesimo cattolico e ortodosso che in Ucraina e Romania si divide la spiritualità di un credo che è l’anima stessa di una nazione. Ci ha parlato delle icone, della religione, della bella Kiev, e di una famiglia che qui in Italia sta mettendo radici. Un mese fa gli è nato il primo figlio, quattro chili, ed è felicissimo. In quei giorni del parto è stato vicino alla sua compagna, ha lavorato di meno, ha rinunciato alla sua paga ordinaria che a mala pena arriva a 60 euro. Poi, a un certo punto, mi ha detto che è semplicemente dispiaciuto che suo figlio non sia italiano. «Solo in Italia succede così. Mia sorella vive in America e lì, quando è nato suo figlio, gli hanno dato subito la cittadinanza».
 
Per un attimo sono stato zitto. Non sapevo come rispondere. Gli ho versato altro vino e gli ho detto che un giorno cambierà. Sì, cambierà, anche nel nostro Paese.
Sergio, ucraino che sembra un italiano di altri tempi, ha ripreso il lavoro. Suo figlio deve mangiare e non c’è tempo per fermarsi.
 
Chissà cosa avrebbe pensato mio padre.

venerdì 25 novembre 2011

Il fuoco e la speranza

Quel fuoco improvviso che brucia una vita umana ha lasciato di sasso molti navigatori della rete mondiale. Non è, infatti, un fuoco qualsiasi quello che avvolge la monaca tibetana Palden Choesto. Le immagini risalgono al 3 novembre scorso, ma sono state postate in rete da Free Tibet e riprese da altri siti web di esuli tibetani. Sono forti. La religiosa, in piedi, prende fuoco in mezzo a una via cittadina. Si odono le urla di orrore dei passanti e il canto dei monaci che recitano mantra. Una donna in abiti tradizionali si avvicina al rogo e lancia una sciarpa bianca rituale tibetana. Altrettanto forti, però, sono le riflessioni che questo fuoco sacro che brucia una vita umana può lasciare alla coscienza dell’internauta occidentale.
 
Il gesto nasconde disperazione per una “notizia” che dura ormai da più di mezzo secolo, da quando i cinesi hanno preso il controllo politico e, in parte religioso, del Tibet (ma solo in parte, perché il XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, resiste dal 1959 a Dharamsala in India come capo religioso del popolo tibetano mentre si è dimesso lo scorso marzo come capo politico del governo in esilio). Una resistenza dolorosa che ha i caratteri del martirio, quella del popolo tibetano. A disperazione si aggiunge disperazione, perché forse, pensano parecchi monaci, una notizia sconvolgente come quella delle autoimmolazioni potrebbe risvegliare un po’ l’assonnata attenzione internazionale su uno dei drammi dei nostri tempi.
 
A partire da marzo, undici persone, tra cui due donne, si sono suicidate col fuoco per protestare contro la repressione cinese. Tutte le immolazioni sono avvenute nelle aree a popolazione tibetana della provincia cinese del Sichuan. Il luogo dove si è immolata Palden Choesto è la città di Kardze, un’area che è stata al centro della rivolta anticinese del 2008 e che da allora è sottoposta a uno stretto controllo da parte delle forze di sicurezza cinesi.
 
Nei giorni scorsi il Dalai Lama ha espresso dubbi sull’efficacia delle autoimmolazioni per protesta. «C’è del coraggio, un coraggio molto forte – ha detto parlando del sacrificio –. Ma quanta efficacia? Il coraggio da solo non sostituisce la saggezza. Bisogna utilizzare la saggezza». Tenzin Gyatso ha fatto molto per il suo popolo. Ha girato il mondo parlando di libertà, non violenza e diritto di poter praticare la propria religione. Spesso i governanti hanno fatto finta di non ascoltarlo, per evitare incidenti diplomatici con la Cina. Il Premio Nobel a lui assegnato il 10 dicembre del 1989 spiega bene chi è il XIV Dalai Lama. «Il Dalai Lama – si legge nelle motivazioni del Nobel – nella sua lotta per la liberazione del Tibet ha sempre e coerentemente rifiutato l’uso della violenza, preferendo ricercare soluzioni pacifiche basate sulla tolleranza e il rispetto reciproco, per preservare il retaggio storico e culturale del Suo popolo. Il Dalai Lama ha sviluppato la propria filosofia di pace a partire da un reverente rispetto per tutto ciò che è vivo, basandosi sul concetto della responsabilità universale che unisce tutta l’umanità al pari della natura. Il Comitato ritiene che Sua Santità abbia avanzato proposte costruttive e lungimiranti per la soluzione dei conflitti internazionali, e per affrontare il problema dei diritti umani e le questioni ambientali globali».
 
Oggi, nell’anno duemilaundici dell’era globalizzata, il Tibet fa i conti con una storia che non gli ha restituito ancora libertà. Un ragazzo di vent’anni, Gendhun Choekyi Nyima, riconosciuto nel 1995 come reincarnazione dell’attuale Dalai Lama, forse è ancora nelle carceri cinesi. Non se ne sa più nulla da quella data.
 
Ma Tenzin Gyatso ci crede alla pace. Eccome. Si è fatto da parte anche per questo lo scorso marzo. Affinché un giorno le nevi dell’Himalaya possano spegnere i fuochi di una protesta disperata che osa chiedere solo aiuto. E un po’ di rispetto.