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martedì 28 febbraio 2012

Tra un iPad e un calice di Pinot


Pasticceria Fiori, un cult per chi si trova a passare in Cadore, lungo la strada Alemagna, la “via delle Dolomiti” che in un attimo ti porta in Austria. Quattro tavoli all’interno, fermarsi a degustare krafen ripieni di marmellata e crema è d’obbligo. Davanti a me due coppie giovani, rispettivamente con quattro iPad messi sul tavolino. Sguardi persi e concentrati sul da farsi. Nemmeno una sillaba, un ciao di cortesia. La cameriera arriva per l’ordine ma gli internauti nemmeno se ne accorgono. Un iPhone all’improvviso sbuca da chissà dove e reclama il suo spazio. Fili, prese di corrente, pochi sorrisi, tutto molto professional. Quasi radical chic. Il silenzio accompagna i tasti frettolosi sulla tastiera dei tablet, si sente la crisi economica e c’è molta meno gente in giro.
Cercano impazienti una presa di corrente sotto le gambe dei bellissimi tavolini in legno, devono scaricare l’ultima applicazione per iPad e non sia mai che le pile finiscano all’improvviso.
Il krafen è sul piano del tavolo, caldo e odoroso, ma sopra c’è l’iPad, e poi un iPhone, e poi ancora una cuffia e vari cavetti adattatori. Il silenzio e la concentrazione delle due coppie vengono solo disturbati da “bip” improvvisi provenienti dai tablet. Una sola parola: «ma ci sarà mai un punto wifi in questo locale gratis?». Forse non sanno che fuori, nel parco di San Vito, vicino alla vecchia stazione ferroviaria del mitico treno a scartamento ridotto che, tra il 1921 e il 1964, una volta portava i passeggeri da Calalzo fino a Cortina e Dobbiaco lungo le vallate del Boite e della Rienza in uno spettacolo naturale di rara emozione (una scelta, quella della soppressione del treno, in omaggio al mito del progresso e che negli anni si è rivelata sfortunata), c’è la possibilità di collegarsi wifi. Ma, chissà, forse farà un po’ freddo. Controllare l’iPad allora, vediamo che temperatura fa fuori, è l’unica parola ascoltata dai quattro.
L’altra coppia accanto a me è di una certa età. Lui ha ordinato un calice di Pinot nero e un cadorino, pane di segale, speck e cetrioli. Lei una cioccolata calda. Guardano in silenzio il sole che illumina l’Antelao, una delle rocce dolomitiche che ha i colori migliori. Degustano il buon vino in silenzio, e non hanno nemmeno uno straccio di un ridicolo cellulare.
Sorridono. Hanno da raccontarsi. Beata vecchiaia.



martedì 7 febbraio 2012

La neve e la decrescita serena


I supermercati presi d’assalto come se fossimo alla vigilia di un conflitto mondiale. Mancano pane, pasta e farina. La probabilità che un giorno o l’altro i russi ci taglino il gas, e addio riscaldamento. Come quel 28 settembre 2003, quando un guasto a un centrale elettrica svizzera mandò l’Italia al buio. Le grandi città che vanno in tilt perché nevica. Le gomme termiche che nessuno usa. I comuni del Nord Italia che vivono almeno per sei mesi l’anno con neve e freddo sotto gli zero centigradi. E non succede mai niente. Le caldaie ghiacciate. L’energia elettrica mancante. I servizi comunali che non esistono, almeno a Roma. E il solito balletto delle competenze e dello scaricabarile. Ma è colpa di chi? Le grandi megalopoli in preda alla disorganizzazione totale nell’era della comunicazione e della tecnologia. Dove stavano Anas, vigili del fuoco, polizia, carabinieri ed esercito quel famigerato 3 febbraio? E le previsioni meteo scaricabili dai pc?
Chissà il famoso mito del progresso dove sia andato a finire. Siamo sicuri che viviamo tutti nel benessere? Oppure, il progresso, è un’illusione che si scioglie alla prima nevicata di stagione? Siamo così sicuri che le nostre città siano realmente infallibili? Che un giorno o l’altro non moriremo surgelati o surriscaldati o naufragati o inzuppati nelle piogge torrenziali?
Serge Latouche, filosofo ed economista francese, parla senza mezzi termini di “decrescita serena”. Sarà forse utopico. Ma a noi piace. In alternativa al modello neocapitalista e al mito del prodotto interno lordo, preferiamo una società più povera dove sottomettere le decisioni politiche ed economiche alla dura legge della termodinamica, secondo la quale nulla si può fare senza che l’energia si degradi.
La teoria di Latouche si traduce in otto “R”: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Basteranno per arginare la deriva di questa società che consuma, spreca, e non produce più beni di prima necessità?
Nel momento più critico della pratica del neocapitalismo selvaggio basato sulla crescita individualista che se ne frega del bene comune, ripensare la decrescita serena non come un “no” allo sviluppo mirato, ma come a un “sì” a una a-crescita consapevole è la sola e unica via possibile.
Per tutti. Per i paesi occidentali, aggrappati come delle piante rampicanti al muro di una teoria dello sviluppo che non ammette sconti. Per i paesi più poveri, semplicemente perché così forse si salveranno.
Decrescita serena. Traduzione per l’oggi: tornare alle “cose” di una volta. Con l’aiuto del progresso, s’intende. Tornare alla terra, e alle angustie del cielo. Ma sapendoli rispettare questo cielo e questo creato. E ricominciare da lì. Con l’iphone in una mano e una pala per liberare la neve nell’altra.