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giovedì 1 marzo 2012

Il genio di Lucio Dalla e il Dio che ci guarda


Un genio Lucio Dalla. Un autentico genio. Nella musica, ma nell’arte in generale, ciò che contraddistingue la genialità dell’artista risiede nel fatto che le sue opere, oltre che belle, siano diventate più volte realmente popolari, accolte e condivise dalla gente. Ecco, con Lucio Dalla abbiamo avuto questo miracolo. Nel suo mezzo secolo di carriera artistica il musicista e cantautore bolognese ha scritto un’infinità incredibile di buona e godibilissima musica, ma, quello che più conta, ci ha regalato autentiche perle sonore che hanno accompagnato il cammino di noi italiani lungo i cambiamenti, emotivi e sociali, del nostro paese. Qualche nome? Cara, 4 marzo, Piazza Grande, Futura, L’anno che verrà e quella formidabile Caruso, omaggio sudista all’italianità pura, che ha fatto il giro del mondo.
Un genio. Un funambolo della musica. Più musicista e compositore che cantautore. Più attento ai rumori delle emozioni e dei sentimenti che non ai boatos dei cambiamenti sociali. E musica, la sua, sempre nuova, freschissima, mai banale. Arrangiamenti moderni e ritornelli che, apparentemente, sembravano ruffiani, ma, invece, gli uscivano fuori dal profondo del cuore e diventavano presto un omaggio disincantato e forse ironico alla grande melodia italiana.
Un viaggiatore della musica, e per questo diverso dagli altri cantautori, con le sue solitudini e le sue diversità caratteriali di artista e uomo complesso. Ma un genio contemporaneo, capace di mettere insieme bellezza del suono, magia della parola e pathos popolare.
Recentemente non aveva nascosto il suo grande incontro con la fede. Si dichiarava credente e praticante con discrezione, andava in giro con un rosario in tasca e una croce di Davide, non si perdeva una messa ed era innamorato di Gesù. E di Gesù ne parlava spesso nelle sue canzoni. In modo soft, non “impegnato”, per usare una parola tanto in voga ai cantautori di quell’età. Come era altrettanto soft la sua timida e giusta misura nel parlare di politica o dinamiche sociali.
Un genio perché anche “diverso”. Uno di quei geni che hanno raccontato l’Italia per quella che è. Con un briciolo di speranza in più verso un futuro più sorridente, fatto di belle canzoni e di un Dio che ci guarda.

Olimpiadi a Londra: ancora un altro "no"


Il fermo e motivato “no” del governo Monti alle prossime Olimpiadi del 2020 che il mondo sportivo e, in parte, imprenditoriale si augurava si facessero a Roma, ha suscitato più di una sorpresa nell’opinione pubblica. Oltre a un atteggiamento di sobrietà e rigore richiamato più volte dal presidente Monti rispetto a una congiuntura economica difficile che l’Italia sta attraversando, c’è tutto il problema della trasparenza delle spese che i Giochi olimpici comportano. Il “no”, in questo senso, è un “no” da condividere.
Ma c’è un altro “no” che, senz’altro, dovremmo dire ad alta voce. La notizia è di questi giorni e lascia abbastanza sbigottiti. Sembra che, in occasione dei giochi di Londra 2012, si celi qualche “affare” eticamente non esemplare. Stiamo parlando del merchandise olimpico. Gli organizzatori dei Giochi del 2012 sperano che le mascotte di Londra 2012, Wenlock e Mandeville, faccia fare affari d’oro con le vendite di portachiavi, peluche, adesivi, badge, zaini e carte da gioco.
Fin qui, nulla di male. Dove sta allora il problema? Sta nel fatto che il costo nascosto dell’affare sarà pagato dai lavoratori cinesi impiegati per produrre questi beni. La Campagna internazionale di Play Fair dal titolo Giocando con i diritti dei lavoratori (Toying with Workers’ Rights) ha svelato gli altarini confermando che agli operai che preparano i gadget vengono corrisposti orari di straordinari eccessivamente lunghi, una paga molto bassa, e condizioni lavorative ai limiti della decenza.
In particolare il Rapporto ha indagato su due fabbriche cinesi. La fabbrica A produce i badge di Londra 2012 nel 2011, compresi quelli con le mascotte Wenlock e Mandeville. L’azienda occupa circa 500 lavoratori. La maggior parte di loro proviene da villaggi rurali cinesi, è di età compresa tra i 16 e i 24 anni e difficilmente hanno accesso alla casa, all’educazione e alle cure mediche. La fabbrica B sta producendo peluche e oggetti da collezione delle due mascotte olimpiche. Situata in un’area rurale della provincia di Guangdong, l’azienda impiega 600 lavoratori nei periodi di alta produttività. La Campagna Play Fair ha documentato la realtà delle condizioni in queste fabbriche rispetto agli standard sanciti dal codice di condotta del Comitato Organizzatore dei Giochi olimpici e paraolimpici di Londra che include l’Ethical Trading Initiative Base Code. Questo codice dovrebbe garantire un salario di sussistenza, lavoro sicuro, condizioni di lavoro sane e libertà di associazione sindacale, oltre a proibire il lavoro minorile e forzato.
I risultati, invece, sono preoccupanti. La ricerca sulle due fabbriche ha riscontrato violazioni di tutti e nove gli standard che gli organizzatori dei Giochi si sono impegnati a cercare di garantire nelle loro catene di fornitura.
Nessuno dei lavoratori è pagato abbastanza per coprire i bisogni fondamentali e assicurargli un salario dignitoso. Qualcuno non riceve il salario minino e gran parte dei lavoratori non ricevono le prestazioni di sicurezza sociale garantite dalla legge cinese. Per aumentare le paghe inadeguate i lavoratori fanno oltre 100 ore di straordinari al mese. Il limite legale è di 36 ore. Alcuni lavorano su turni di 24 ore, a altri non viene riconosciuto il giorno di riposo. Le condizioni di igiene e sicurezza nelle due fabbriche, sia nei luoghi di lavoro che nei dormitori messi a disposizione dei lavoratori, sono al limite della decenza. Alcuni non hanno un contratto, o non vedono la busta paga.
Ecco perché la notizia può diventare un’occasione di democrazia persa o guadagnata. Sta ai consumatori l’ultima parola. E al nostro libero e incondizionato “no”.