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giovedì 21 novembre 2013

Noi, l'America e Kennedy


Quell’immagine di un’automobile che porta via il corpo accasciato del Presidente degli Stati Uniti d’America fa parte, ancora oggi, di una storia che ha cambiato il mondo. È il 22 novembre 1963 quando a Dallas veniva ucciso John Fitzgerald Kennedy. Le immagini girate dal cineamatore Abraham Zapruder parlano da sole: 26 secondi e 486 fotogrammi che raccontano in super 8 il momento nel quale l’America ha perso il suo Presidente e forse la sua invulnerabilità.
Ci sono intere generazioni di persone che sono cresciute nel mito “kennediano” dei primi anni ’60. Un tempo favorevole per la crescita economica e sociale, ma anche per tutte quelle libertà individuali che l’America, appunto, viveva sulla propria pelle. Con l’avvento di Kennedy e dello stile-Kennedy – ottima oratoria, sorriso, simpatia, popolarità – arriva una ventata di freschezza nella politica mondiale che cambia letteralmente l’immagine stessa della politica: l’on the road, e temi come la giustizia economica, la libertà di espressione e di religione, la lotta alle povertà, diventano il nuovo lessico di un ethos pubblico che ha voglia si svegliarsi da una guerra passata e da una nuova guerra fredda Usa-Urss alle porte che sembra aver diviso il mondo in due parti. Fino a quella ricerca ostinata della pace, molto probabilmente causa dell’attentato stesso.
Anni bellissimi, quelli. Gli anni dei Beatles. E di John Fitzgerald Kennedy, capace di incollare la gente a un televisore o alla radio attraverso le sue parole sui diritti fondamentali di ogni uomo che anche l’America, sì, l’America libera, doveva approfondire.
Con papa Giovanni XXIII e Nikita Kruscev, segretario del partito comunista russo, formano una leadership per una nuova speranza. L’11 aprile del 1963 Giovanni XXIII pubblica l’enciclica Pacem in Terris. Non un’enciclica qualunque: qualche mese prima, nell’ottobre del 1962, c’è la grave crisi di Cuba tra Usa e Urss e i venti di guerra soffiano forte. Le navi sovietiche si avvicinano pericolosamente alle navi americane con il rischio di un’apocalisse nucleare, quando il papa “buono” invia un messaggio a Kennedy e a Kruscev che fu letto alla radio. I governanti – invoca il papa – «facciano tutto ciò che è in loro potere per scongiurare la guerra… Promuovere, favorire, accettare trattative a ogni livello e in ogni tempo». A Mosca la Tass riprende subito il testo del messaggio e la Pravda gli dedica un intero articolo. Il giorno dopo Kruscev invia a Kennedy la lettera risolutiva della crisi che propone il ritiro dei missili da Cuba in cambio della garanzia a non invadere l’isola.
È la vittoria della vita sulla morte. Della speranza che la politica può fare qualcosa, se solo volesse. E oggi, a 50 anni di distanza da un omicidio che ancora non vede punire i responsabili e che comunque ha sconvolto la storia, il volto sorridente di John Fitzgerald affascina ancora chi lo guarda.
Un sogno che si è fermato? Forse. Certo è che senza John Fitzgerald Kennedy oggi noi non saremmo “noi” e l’America, forse, sarebbe diventata un tiranno “democratico”.
Il debito che abbiamo tutti con il liberal Kennedy è immenso. Di progettualità politica, di futuro, di democrazia. Forse, solo adesso, cominciamo a rendercene conto.

mercoledì 20 novembre 2013

Le tre sfide di Francesco


C’è chi parla di nuova evangelizzazione. Chi di “nuova era” della Chiesa cattolica. Chi del ritorno al Concilio Vaticano II. Ancora, c’è chi dice che la Chiesa, finalmente, ha ripreso a dialogare con il mondo. Certo, papa Francesco sta rivoluzionando a modo suo la teologia e la pastorale della comunità ecclesiale: i suoi gesti, le sue parole, e le sue decisioni in ordine a cambiamenti radicali nella struttura organizzativa della Chiesa fanno discutere chi non è d’accordo e gioire chi questi cambiamenti li sognava da tempo.
Il C8, gli otto cardinali scelti da Francesco per ridisegnare il volto della Curia, sono al lavoro; la riforma dello Ior, la banca vaticana, è ben più di un progetto, quasi una realtà. Francesco ha chiesto alla Cei, la Conferenza episcopale italiana, una riforma della sua organizzazione, oggi troppo elefantiaca e costruita più per un clero in contrapposizione con tutto quello che c’è “fuori” e quindi capace di mediare rendite di posizioni con la politica. La riforma non tocca solo l’organizzazione interna della Cei ma va a incidere profondamente anche nei gangli della pastorale e dell’impegno missionario delle diocesi. Uno snellimento di esse, infatti, è previsto. Sono 226 in Italia: troppe agli occhi di Francesco e del nuovo segretario di stato Parolin. Sprechi inutili, soprattutto economici. Come inutile sembra essere il perpetrarsi di uno status ecclesiale forgiato però in tempi diversi dall’attuale. Anche se la Cei fa sapere che i criteri che si riferiscono all’eventuale taglio delle diocesi riguardano il numero degli abitanti, l’estensione territoriale, le particolari tradizioni di radicamento religioso.
Una riforma che sarà presentata a gennaio: nel maggio del 2014 avremo un nuovo presidente della Cei eletto direttamente dall’assemblea dei vescovi italiani e non dal papa e anche a breve un nuovo segretario generale, visto che mons. Mariano Crociata è stato eletto vescovo della diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno. Non è cosa da poco per le vicende storiche del cattolicesimo in Italia.
Per mons. Crociata, persona mite, intelligente e preparata, ex vescovo di Noto e già collaboratore del promettente arcivescovo di Monreale Cataldo Naro, prematuramente scomparso nel 2006, si tratta evidentemente di una diminutio, anche se il prelato ha accettato la nomina in spirito di servizio e obbedienza. Nominato da papa Benedetto XVI nel settembre 2008 segretario generale della Cei, ha coordinato la pastorale della Chiesa italiana in anni difficili e di transizione, prima con l’accoppiata Bagnasco-Benedetto e oggi con Francesco. I suoi predecessori sono stati più “fortunati”: Ennio Antonelli e Giuseppe Betori sono andati a Firenze, Camillo Ruini a Roma, Dionigi Tettamanzi a Genova. Tutte sedi cardinalizie.  Francesco, con l’aiuto di Parolin, sta entrando di peso nella questione “Italia” e dopo aver suggerito alla Cei di nominare un semplice prete come segretario generale, in spirito di servizio e non come trampolino di lancio per future carriere ecclesiali, ha iniziato a imporre, in maniera non più soft, uno stile diverso anche all’interno della più complicata e grande organizzazione ecclesiastica del mondo. La nomina “vescovile” di mons. Crociata, comunque importante, rende chiaro a tutti in quale direzione voglia muoversi la riforma voluta da Francesco. Una riforma che intende “liberare” i tanti segni profetici della Chiesa italiana nell’aiuto ai bisognosi e nell’annuncio di una Parola accogliente che accarezzi il volto di tutti.
L’impressione, a volte, è che la Chiesa italiana fatichi a sintonizzarsi al nuovo corso. Eppure il papa era stato fin troppo chiaro nel suo primo incontro con i vescovi italiani riuniti a Roma per l’assemblea della Cei. «La mancata vigilanza – secondo Francesco – rende tiepido il pastore, lo fa distratto, dimentico e persino insofferente; lo seduce con la prospettiva della carriera, la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo; lo impigrisce, trasformandolo in un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé, dell'organizzazione e delle strutture, che del vero bene del Popolo di Dio. Si corre il rischio, allora, come l’apostolo Pietro, di rinnegare il Signore, anche se formalmente ci si presenta e si parla in suo nome; si offusca la santità della Madre Chiesa gerarchica, rendendola meno feconda».
Le sfide che Francesco ha davanti a sé sono essenzialmente tre: una riforma interna della Chiesa, la sua missione nel mondo, il ruolo del ministero petrino. E se per la riforma interna, forse la più difficile da applicare, ha istituito una commissione apposita, per la nuova evangelizzazione e il ruolo del papa parlano le sue parole e i suoi gesti pieni di umanità.
È indubbio che l’evangelizzazione e la missionarietà dell’annuncio della Parola di Dio è il punto di svolta dell’attuale pontificato. Il mondo e i popoli hanno bisogno di speranza. La Chiesa universale come vorrà abbracciare questa speranza? Tenerezza, misericordia, perdono, attenzione alla sofferenza: sono questi i termini di un nuovo lessico della speranza dove credenti e non credenti possono abbeverarsi senza paura di perdere i propri riferimenti religiosi oppure sentirli troppo aggressivi.
Una missionarietà che torna a pescare slanci e sentimenti nella collegialità, nella comunione, nella sinodalità. Sono queste le parole chiavi per comprendere la riforma che papa Francesco vuole imprimere al governo della Chiesa. Una riforma che dovrà appoggiarsi a un apparato organizzativo limpido, trasparente, sobrio ma che trae linfa vitale dall’autorità petrina che è “costretta” a collaborare con le Chiese locali e con il laicato.
Non un sommo pontefice che comanda, ma un Petrus che attua i consigli della grande Chiesa universale. In compagnia dei fratelli vescovi.

giovedì 14 novembre 2013

Tra l'aratro, l'iphone e le stelle. La rivoluzione della tenerezza di Tommaso Giuntella


Sì, è vero: avrei preferito che al congresso per eleggere il segretario del Pd romano si andasse alla conta. Amo la democrazia dei numeri: abitua al rispetto dell’avversario, evita gli equivoci (inciuci), rende trasparente il rapporto tra eletto ed elettore. Non ho mai sopportato quell’invito all’”unità” più che alla legittima competizione che mi rimanda a tristi epoche storiche in cui comitati centrali e riunioni correntizie la facevano da padrone. Ma, allo stesso tempo, non mi sono scandalizzato se l’amico e fratello Tommaso Giuntella è stato eletto per acclamazione presidente del Pd romano. Anzi, a dirla tutta, la notizia mi ha procurato una sottile vena di piacere.
Negli ultimi tempi, da dietro le quinte, ho seguito il cammino politico di Tommaso attraverso i suoi scritti, i suoi interventi pubblici, il suo chattare continuamente sul web. E, anche se abito in un municipio diverso dal suo, ho dovuto per forza essere informato sui suoi primi atti da consigliere “in primis” del municipio I, cioè quello del centro storico, quartiere che è di casa per chi fa informazione. Tommaso appartiene, per sangue generativo e credo anche per scelta personale, alla grande tradizione del cattolicesimo democratico di questo paese. Certo, più liberal, più decisamente laica nei confronti di istituzioni e chiese. Più libera, direi, anche rispetto a un passato fatto da professoroni, integerrimi intellettuali che amavano frequentare più i sacri conventi che non la rete (che non c’era) o il popolo. Tommaso, in questo, è decisamente diverso da quella generazione che, ricordiamo, ha dato un forte contributo, anche di sangue, alla tutela delle nostre libertà fondamentali e alla crescita del bene comune nel nostro paese. Che io mi ricordi, dopo Rosy Bindi, mietitrice di voti per tanti anni nella Veneto bianca, è l’unico catto-democratico-liberal, insieme forse a Michele Nicoletti nell’amato Trentino, a “sfondare” elettoralmente.
A Tommaso la gente, non solo i ragazzi, lo seguono. E poi lo votano. Sebbene il suo cognome sia macchiato da discendenza reale cattodemocratica, lui, con tenerezza, disarma la stirpe eletta con le armi del sorriso, dell’ironia e dell’intelligenza. Tommaso non è stato chiamato in “quel” posto: se lo è guadagnato. E non potrebbe essere altrimenti per uno che ha fatto la scelta della politica, cioè di stare con la gente, nel quotidiano. Per Tommaso (per adesso), non ci sono titoli accademici a decretarne il passo, così come avvenne ai suoi illustri predecessori. Ma c’è quell’”odore delle pecore”, per dirla con vescovo Francesco, che fa sì che quella proverbiale dizione lazzatiana che usiamo spesso in tanti convegni, “costruire la città dell’uomo a misura d’uomo”, non sia un vuoto parlarsi addosso, ma davvero l’avverarsi del sogno di Isaia che trasforma le lance in vomeri.
Tommaso usa bicicletta e vespa come la normalità di un adolescente che chatta su facebook. Ha un lavoro, scrive su giornali nazionali, cita Chesterton come se fosse il vicino di casa, ama l’ironia, cammina per montagne, si appassiona per le nuove democrazie digitali, continua a essere scout, frequenta la curva sud dello stadio Olimpico senza farsi mai mancare qualche buona pinta di birra nei pub delle vicinanze, conosce i libri, quelli veri, suona strumenti da piantagione di tabacco e cotone, e stila classifiche improbabili e quotidiane su rock-dem e alleluja da brivido. In più, se non bastasse, è sposato con una bellissima donna, prima cercata, attesa e infine conquistata.
Ma ci sono altre due cose che lo riguardano che mi mettono di buon umore. La prima è che dei tre giovani scelti da Bersani per la sua campagna per le scorse primarie, lui è l’unico che non ha fatto carriera (politica) e non è entrato in Parlamento. La seconda, più personale, è che, voglia o non voglia, è stato battezzato nella chiesa di San Melchiade, perché suo padre e sua madre, durante gli anni del ruinismo dominante e del wojtylismo prorompente, scelsero di fare la buona battaglia in una estrema periferia della città, oggi diventata ormai centro. Tommaso porta quindi su di sé quella macchia di “popolarità” che lo distingue dal resto del gruppo elitario dei cattodemocratici.
In uno degli ultimi colloqui che ebbi con papà Paolo, ricordo i suoi (legittimi) dubbi sul futuro del giovanissimo Tommaso anche se, ebbe a dirmi, «scrive benissimo, “quasi” meglio di me». Lo rassicurai dicendo che i geni, specie quelli incompresi, escono fuori dopo.
Ecco perché, tra l’aratro, l’iphone e le stelle, la rivoluzione della tenerezza di Tommaso Giuntella mi affascina e mi sorprende.
E rende ai miei occhi la politica, oggi, meno ostile. Forse, addirittura, più simpatica. Capace di far memoria dell’aratro, ma decisamente in cammino attraverso le incognite e il mistero di un cielo stellato.