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venerdì 28 febbraio 2014

Oltre le parrocchie? Le provocazioni dell'Evangelii Gaudium


articolo apparso il 28 febbraio su www.vinonuovo.it

L’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, gradatamente e garbatamente, sembra quasi essere scomparsa dal radar dell’interesse pubblico. Per i giornali non è più notizia da prima pagina, per alcuni pastori e monsignori non ha il valore di un’enciclica, per tante parrocchie è tema da non sottolineare, non è un mistero che gli operatori pastorali fanno finta che non esista.
Eppure, a leggerla diverse volte, la Evangelii Gaudium si presta a essere considerata come una vera e propria rivoluzione “esistenziale” all’interno del modo di comunicare “la buona notizia”. Più di un’enciclica, spesso a volte molto generiche nei princìpi, questa esortazione ha il pregio di affrontare alcuni nodi problematici della pastorale delle parrocchie con un taglio concreto. Bergoglio non consiglia atteggiamenti generici, ma parla di un nuovo modo di vivere l’annuncio missionario all’interno delle nostre comunità ecclesiali di appartenenza in un completo ribaltamento – una rotazione a 360 gradi – delle forme, dei modi e direi dell’essere cristiani oggi in un dato territorio.
Ho avuto modo di riflettere su ciò in due libri che usciranno nei prossimi due mesi, Chiesa anno zero. Una rivoluzione chiamata Francesco (orizzonte politico-ecclesiale) e Il vento soffia dove vuole. Un monaco racconta (con Alessandro Barban, orizzonte teologico-pastorale). Vorrei qui riprenderne alcuni punti salienti.
La rivoluzione “pastorale” di cui parla Francesco – del tutto evidente leggendo a fondo l’esortazione e che mette un po’ di paura a molti operatori pastorali che vedono improvvisamente cambiare il loro “mondo parrocchiale” di riferimento, fatto di consuetudini pastorali, amicizie consolidate, abitudini, tranquillità spirituali – è davvero una rivoluzione dell’essere, certo, che tocca la nostra vita, ma è anche una proposta di cambiamento all’interno delle nostre pastorali rigidi e “catechetiche”. Pastorali parrocchiali vissute per troppi anni all’interno di mura fin troppo alte dove i confini erano, e sono tutt’ora, l’appartenenza al territorio, le catechesi sacramentali, e quel modo di pensare l’iniziazione cristiana inossidabile nella sua imperturbabile eternità. Una pastorale organizzata spesso attraverso un “do ut des” (servizio-visibilità personale) tra parroco e laici che però nel tempo ha irrigidito la struttura chiesa-tempio a una sorta di enclave dove, di solito, sono presenti e ben accetti solo i laici che accettano il do ut des diventando, consapevolmente, più clericali dei loro stessi pastori. All’accusa di “invadenza” che spesso i “parrocchiani” fanno ai movimenti ecclesiali e ai loro percorsi di fede personali, fa da contraltare spesso una chiusura “ad intra” degli stessi gruppi e gruppetti nati esplicitamente in parrocchia, che alzano la bandiera dell’apertura cavalcando invece la chiusura, determinando fratture nella comunità laicale.
Credo, invece, che dobbiamo sforzarci di pensare a una nuova parrocchia, lontana mille miglia da quella che era ed è oggi. Una parrocchia che abbracci il cammino dell’uscire fuori dal tempio.
Si aprono due strade per questo nuovo annuncio missionario: la parrocchia non potrà che essere il luogo eletto dove si lasci spazio al tempo dello Spirito e al tempo della Solidarietà.
È finito invece il tempo della parrocchia vista come aggregazione o come intrattenimento. La Chiesa non è una baby sitter, lo dice ad alta voce papa Francesco. Ma sembra che le nostre parrocchie non abbiano colto il cambiamento in atto nella società, soprattutto nelle nuove sfide dell’educazione. C’è da pensare oggi, visto il cambiamento antropologico che riguarda le nuove generazioni, a un annuncio missionario che liberi creatività, gusto, memoria, passione per il Regno e buona speranza per il bene comune. Una parrocchia aperta, via di entrata e di uscita per ogni viandante della fede, come se fosse una casa con la porta sempre aperta, regno del desiderio di Assoluto, e dove chiunque possa avvicinarsi e allo stesso tempo uscire per ritornarvi.
È finito il tempo dei sacramenti visti e organizzati come obbligo. E il resto che ruota intorno a ciò: la messa di bambini, la messa degli adulti, preti che ancora si ostinano a leggere solo la prima lettura dimenticandosi della novità e bellezza del Nuovo Testamento, la prima chiesa degli apostoli, i canti che non si possono più sentire, le chitarre scordate, l’Alleluja e i Sanctus che non sono più inni di gioia ma tristi litanie di un atteggiamento verso il sacro al limite della superficialità.
Il concetto della territorialità, almeno come lo abbiamo conosciuto in tutti questi anni, è cambiato. Non c’è più. La parrocchia è a-territoriale: è il “luogo”, ma anche il “non-luogo”, è la casa ma anche la via. Un agnostico o un “lontano” che è in ricerca può recarsi in una parrocchia che dista chilometri dal luogo in cui abita, perché forse lì, in quel luogo e in quel tempo, può ascoltare il soffio dello Spirito. Così come un credente che, ormai maturo nella fede, voglia seguire una messa, e un’omelia decente, in una chiesa che non sia la sua.
È proprio questo il punto: nessuno oggi può più dire “questa è la mia chiesa, questo è il mio tempio, questa è la mia parrocchia”. Nessuno. Sono cambiate le latitudini del cuore e le longitudini dell’anima. Oggi siamo di fronte a un nuovo cristianesimo errante nel viaggio, nel cammino, un cristianesimo itinerante e orante, come d’altronde ai tempi di Gesù.
Una parrocchia che non sia itinerante e solidale non è più un luogo di Dio. Durante la recente alluvione di Roma, ad esempio, la parrocchia Sant’Alfonso Maria de’ Liguori è diventata un luogo di Dio perché ha accolto su di sé solidarietà e accoglienza. Ma è andata anche oltre: ha messo in moto energie, spiriti liberi, solidarietà diffuse e spesso nascoste. È andata in un “oltre” che annulla le distanze e rende il vangelo davvero alla portata di tutti, facendosi rete di solidarietà diverse e diffuse, alzando la voce, gridando lo sdegno, raccogliendo sorrisi e mani pronti a cooperare e aiutare.
Sì, è finita la parrocchia aggregante, quella che basta che ci si diverta, poi magari una preghierina, e passa tutto. È finito un certo modello di oratorio salesiano, e la chiesa-tempio vista solo come un eterno campo di calcio dove far convogliare bambini e ragazzi (perché altrimenti vanno in strada…), mentre c’è da educare le coscienze a mettersi in sintonia dello Spirito e ad “annusare” il gusto di Dio. È finito il tempo di una pastorale, per forza di cose, organizzata in pastorale ordinaria e straordinaria. Da rivedere l’iniziazione cristiana, i percorsi, i sacramenti con il loro lato obbligatorio e dogmatico. Perfino i consigli pastorali, che dovevano essere, almeno nelle intenzioni del Concilio Vaticano II, luoghi in cui crescere nella fede e nel servizio, dovranno essere rivisti. Così non servono più a nulla. Occorre che si tramutino in luoghi di cura e di tempo speso per far diventare le nostre parrocchie occasioni di incontro con lo Spirito e la Solidarietà.
Perché, invece, non facciamo tutti un bel salto in avanti e immaginare le nostre parrocchie non come prestazioni di servizi sacramentali e luoghi di pura aggregazione, ma case accoglienti dove poter ascoltare in santa pace il soffio dello Spirito e dove poter essere vicini all’Altro, anche quello che abita chilometri e chilometri da noi?
La rivoluzione di Francesco ci chiede una cosa sola. Scardinare la logica del “do ut des” ecclesiale. Scardinarla dal di dentro, attuando obiezione di coscienza individuale alla logica di una chiamata a un servizio che escluda l’Altro, chiunque esso sia, che pratichi divisione, che si nasconda dentro le mura del tempio.
Infine, sarebbe opportuno che gli adulti si dimenticassero dei servizi pastorali, lasciando spazio ai giovani. Liberassero energie per altro. Dedicassero tempo allo Spirito, e alla Solidarietà.
È il tempo di una Chiesa giovane, sorridente e liberante. La profezia evangelica passa da qui, da queste nostre parrocchie aperte al mondo. Vie di fuga e vie di ritorno. Tende per il deserto e case per il rifugio. Una strada da percorrere aprendosi con coraggio al nuovo. Non più servizi ecclesiali, ma vita vissuta. Da cristiani, fuori dalle mura del tempio.
Poi, certo, c’è da rivedere la formazione dei preti e il loro senso di Chiesa, cioè di ecclesia. Ma, di questo, se ne sta già occupando Francesco.
Che piaccia o non piaccia, la rivoluzione è iniziata.

mercoledì 26 febbraio 2014

Io, noi, loro. E Renzi


Io. Classe media (o forse medio-bassa, ormai…), generazione di mezza età, abituato a rispettare le regole, a pagare le tasse, a portare rispetto a chiunque, a fare da tornaconto alla fine del mese. Erede di un’Italia bella che non c’è più, dove l’amore verso la propria famiglia e il bene comune andavano di pari passo con la voglia di fare, di avere giuste ambizioni. Erede fortunato di casa e proprietà, e gestore sfortunato di bilanci mensili che non arrivano nemmeno a mettere insieme quattro mattoni per futura dimora, in mezzo a un paese reale che oggi, qui, ora, tra di noi, ha paura del proprio avvenire.
Noi. L’Italia che annaspa, arraffa, sbuffa, indietreggia, e poi arrabbiata, incazzata, delusa, rapita, lontana, fragile, presa in mezzo alla comunicazione globale fatta di tablet e smartphone ma incapace di comunicare buona speranza. L’Italia del debito pubblico e della politica rubata, quella che crede che è possibile ancora salvarsi “mediando” rendite antiche (delle solite famiglie e dei soliti potentati economici che comandano dalla ricostruzione post-bellica in poi…) e mercanteggiamenti da palazzo. Senza minimamente immaginare quello che succederà a breve, anche ai loro dorati palazzi, alle loro remunerate rendite finanziarie, ai loro nascosti tesori immobiliari, se non si farà posto a una parola molto keynesiana, e forse antica, ma mai dimenticata: redistribuzione del reddito. Il “noi” del bene comune preso a randellate dall’”io” dell’etica individualistica, la praticità del pareggio di bilancio (regola economica che dovrebbe essere presa ad esempio più dalla microeconomia che non dalla macro) devastata a opera dell’arte di “arrangiarsi”, tipica nostrana.
Noi, paese in mezzo al guado, tra il pensare meridiano di Franco Cassano e un’etica (e un’economia) mediterranea che ancora ha senso se il sistema Italia sappia però riconoscere la propensione weberiana all’etica capitalistica che il nord del paese ha nelle sue radici, perfino nell’anima.
Loro. La generazione incredula, i giovani di oggi, quelli che sanno, che parlano via web, che si informano, si appassionano, così antropologicamente diversi da ciò che ruota intorno a loro. Diversi da noi, fortemente diversi, portatori di universi culturali ed etici distinti e distanti. Loro, oggi già alle prese con responsabilità politiche e culturali. Loro, i disoccupati, gli innamorati, i delusi, che senza mamma e papà, anzi, senza la pensione di nonno e nonna, non andrebbero da nessuna parte, non studierebbero nelle università più famose e costose, non si potrebbero permettere le settimane bianche, l’automobile a 18 anni, e i consumi, cari, dei loro smartphone. Loro, che già oggi anticipano in un supplemento di emozione quello che avverrà tra non molto tempo, quando i supermercati saranno presi d’assalto perché la parola “fame” ha sempre diritto di primizia e di parola.
E Renzi. Già, Renzi. Forse quello che ha capito prima di tutti l’io, noi, e loro. Portatore di sogni in attesa di fatti. Animale fuori dalla politica, quella che abbiamo conosciuto fino a oggi noi, perché oggi la politica è già “cosa” diversa, in corso di mutazione genetica rispetto al cambiamento dei tempi. Ragazzo fattosi da solo, senza capo-cordate, padrini politici, potentati economici alle spalle, figlio dei fatti e non dell'ideologia, figlio di questo tempo certamente ambizioso e appassionato, e ostico persino a un Pd che ancora perde tempo a sondare la sua base piuttosto che far vincere il paese. Lontano mille miglia dalle dispute su cosa sia la destra e la sinistra, e divulgatore di una rivoluzione dolce che certo non si può definire conservazione.
Ce la farà? Chissà. Su una cosa ha ragione: se fallisce, fallisce lui, noi e loro. E a questo paese non rimarrà altra che affidarsi, per l’ennesima volta, a un futuro che è già passato. Ricominciando da zero. Tutti. Ma stavolta senza un Piano Marshall a venirci a salvare.

martedì 25 febbraio 2014

Le sorprese di Francesco nell'Evangelii Gaudium


Articolo pubblicato nel numero di marzo de L'Eco di San Gabriele

«Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”».
Con queste parole, scritte nero su bianco, da papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium, la Chiesa universale ridisegna le tappe di una missione ad gentes attraverso la gioia dell’annuncio. La buona notizia, oggi, con Francesco, è gioia e speranza, dialogo con l’uomo, con chi non crede, chi è lontano, chi è povero, chi è in difficoltà.
Una rivoluzione, teologica e pastorale, per non dire ecclesiale, se non fosse che a pronunciare queste parole e a incarnarle con gesti e segni, sia proprio lui, Francesco, il vescovo di Roma che si è messo in testa di riformare la Chiesa e abbracciare il mondo immerso in una globalizzazione che non risparmia più nessuno.
Un’esortazione, la Evangelii Gaudium, che è più di un consiglio dottrinale rivolto ai fedeli cattolici. Nonostante i “resistenti” a Francesco si ostinino a dire che un’esortazione non ha il valore di un’enciclica, l’Evangelii Gaudium ha il fascino di un vero e proprio programma di pontificato messo per iscritto.
L’Evangelii Gaudium è un po’ lunga. Ma si legge volentieri, e affascina il lettore. Francesco mette subito in chiaro i confini ecclesiali dell’esortazione: la riforma della Chiesa in uscita missionaria, le tentazioni degli operatori pastorali, la Chiesa intesa come la totalità del Popolo di Dio che evangelizza, l’omelia e la sua preparazione, l’inclusione sociale dei poveri, la pace e il dialogo sociale, le motivazioni spirituali per l’impegno missionario. E basta scorrere le pagine per gustarne i consigli pastorali, le sottolineature teologiche, talvolta i rimbrotti amorevoli ma concreti riservati agli uomini di Chiesa. Però, e questo è il punto fondamentale, in questa esortazione è facile vedere il tratto evangelico dell’uomo che ha scelto di chiamarsi Francesco.
C’è tutto un anno di pontificato racchiuso nelle circa duecento paginette. Si respira l’eco della mano tesa ai pescatori e agli isolani di Lampedusa, si trova la rabbia per dignità del lavoro rivolta agli operai di Cagliari, si vede il suo inginocchiarsi a lavare i piedi di una donna carcerata e musulmana, si coglie il sorriso povero di un uomo e pastore del Sud e dei sud del mondo, si immagina perfino don Corrado, l’elemosiniere del papa, che elargisce euro ai poveri che popolano la sera il colonnato di San Pietro.
C’è la mano che dà, e il sorriso che dona sollievo e misericordia. Rivolto a tutti, credenti,  anche ai tiepidi o non praticanti. Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua, scrive il papa. Vero. «Però riconosco – scrive il papa – che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte la tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto. Capisco le persone che inclinano alla tristezza per le gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna permettere che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie».
Un’esortazione bellissima. Un salmo sociale da leggere, gustare, far girare nelle parrocchie, nelle scuole, tra le famiglie. La Chiesa di Francesco è una Chiesa “in uscita”, è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. La Chiesa in uscita fa il primo passo, prende l’iniziativa senza paura, va incontro, cerca i lontani e arriva agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. «Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: “Sarete beati se farete questo” (Gv 13,17)».
Francesco insiste molto sulla comunità evangelizzatrice, una comunità dal volto sorridente e accogliente, che celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione. L’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene.
Sebbene l’esortazione si soffermi molto sulla centralità delle parrocchie, c’è perfino un capitolo che dà consigli su come un pastore dovrebbe preparare e dire l’omelia, è sullo stile della comunità accogliente che Francesco pone la sua attenzione. Uno stile “in uscita”, che sappia impregnarsi più dell’odore delle pecore che degli spifferi dei sacri palazzi o delle sagrestie paesane, accompagnato sempre da una docilità d’animo e una sobrietà dello spirito che rende il cristiano forte, lieto, annunciatore di buona speranza.
Evangelizzatori con Spirito: li chiama così Francesco. Evangelizzatori della “buona battaglia”, che pregano e lavorano. «Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore. Tali proposte parziali e disgreganti raggiungono solo piccoli gruppi e non hanno una forza di ampia penetrazione, perché mutilano il Vangelo».
Nella vigna di Francesco c’è spazio per la misericordia e la tenerezza, ma si coltiva la sobrietà e la carità, la fortezza e il sorriso. È la nuova rivoluzione di questo papa venuto da lontano. Nulla è come prima nella Chiesa di Francesco. E se qualche pastore non se ne è ancora accorto, è meglio che migliori la sua attenzione ecclesiale e pastorale: siamo solo all’inizio.