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sabato 26 aprile 2014

Santo subito, santi insieme


La piazza, e il patibolo. La piazza, e la croce. La piazza, e l’intronizzazione. Il potere, qualsiasi potere, politico, rivoluzionario ed ecclesiastico, ha impersonificato nel corso dei secoli l’attitudine a dar voce al popolo, spesso quando questo conviene. Quel “santo subito”, che molti urlavano il giorno dei funerali di Giovanni Paolo II, ha varcato, attraverso le tv di tutto il mondo, il muro delle coscienze di molti cattolici. Santo subito, a furor di popolo, certo. Ma anche “santo subito” per volere dei supporters di papa Wojtyla, tra i quali il clero polacco, e cardinali e vescovi che, con l’ascesa al potere dell’arcivescovo di Cracovia, avevano visto, finalmente, rafforzare la loro idea di Chiesa e allontanare dai loro occhi parecchie scintille di profezia incarnate dal Concilio Vaticano II.
La simbiosi tra popolo e potere è stata, in questo caso, esaltata al massimo. La straordinaria brevità del percorso agli onori degli altari, beatificazione e canonizzazione, a soli 9 anni dalla morte di Wojtyla, dimostrano che l’iter burocratico ha avuto accelerazioni forti, dentro i palazzi che contano. Siamo stati abituati dalla Chiesa a tempi assolutamente più lunghi nella proclamazione di santi, specie se si tratta di papi.
Bergoglio è venuto a scompigliare le acque. Non è un mistero che il carattere e la teologia del papa latinoamericano sono lontani mille miglia dalla biografia spirituale di Giovanni Paolo II: diversi i sorrisi, le parole, e diverso soprattutto il modo di vedere le cose all’interno della Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II si è fidato di collaboratori, in curia, che ora Francesco non vuole più vedere. Del resto, la canonizzazione di Wojtyla è “passata” anche a opera del suo predecessore, Benedetto XVI, e certo non poteva bloccarla. Però una cosa poteva fare, e l’ha fatta. E così, quel nome messo proprio lì da Francesco accanto al papa polacco, il Giovanni XXIII, padre del Concilio Vaticano II, risuona non tanto come un invito a rileggere la storia ecclesiale passata (alcuni caratteri di santità di Giovanni Paolo II sono davanti agli occhi di tutti), quanto un invito a immaginare un futuro dove parole come misericordia, tenerezza, ascolto, accoglienza, dialogo tornano a essere pietra angolare di un nuovo lessico dell’evangelizzazione. Un vangelo, sobrio, leggero, carico di dolcezza e perdono.
Papa Francesco ha dispensato dal secondo miracolo Giovanni XXIII perché ha voluto il Concilio Vaticano II. Lo Spirito Santo dunque bussa anche altre porte? Una canonizzazione pro gratia, papa santo senza bisogno di certificare il secondo miracolo? Forse. «Non esattamente una canonizzazione equipollente – mi racconta Marco Roncalli, pronipote di Giovanni XXIII, giornalista e riconosciuto storico dell’illustre zio -, se il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, ha precisato che “non sono stati fatti sconti, né tantomeno papa Francesco ha esentato dal miracolo”. Il pontefice “ha solo ridotto i tempi per la grande opportunità per la Chiesa intera di celebrare nel 2014 con Giovanni XXIII, l’iniziatore del Concilio Vaticano II, e con Giovanni Paolo II, il realizzatore dei fermenti pastorali, spirituali e dottrinali dei documenti conciliari”. Del resto, e sono sempre parole di Amato, la Positio roncalliana, anche dopo la beatificazione, si è via via arricchita di segnalazioni di grande interesse, accompagnate da documentazione medica, “parte integrante del processo”, tali da non far ritenere formalmente questa una “canonizzazione equipollente” In ogni caso, dietro la decisione, questa volta, c’è papa Francesco. Il pontefice, impressionato dalla cura che Giovanni XXIII “sempre pose nel custodire la propria anima, in mezzo alle più svariate occupazioni in campo ecclesiale e politico”, nonché il pontefice che nei fatti ha sin qui palesato la più creativa “recezione” del Concilio e pro gratia ha reso inutili nuove attese. La conferma di ciò sono le tante persone che hanno creduto in una “bella santità” vissuta quotidianamente nella normalità. Un uomo anziano che aveva la stessa purezza del giorno in cui ricevette il battesimo. Per noi un modo di credere ancora nella possibilità di vivere le virtù cristiane, che non sono solo un fatto privato, ma che incidono nella storia degli uomini».
Ecco perché la decisione bergogliana di accorpare i due papi santi, è politicamente corretta, mediaticamente straripante, gesuiticamente furba, ecclesialmente dirompente. E pastoralmente geniale.
Nessuno mette in dubbio i tanti miracoli fatti da Giovanni Paolo II: le conversioni pastorali, la maturazione della propria fede, e anche le guarigioni corporali. Ma, oggi, la Chiesa festeggia anche quella parte del mondo cattolico che, negli ultimi trenta anni, è stato messo ai margini. Quella Chiesa della profezia e della speranza che aveva scelto il Concilio Vaticano II come stella polare del proprio cammino, e aveva in don Tonino Bello, David Maria Turoldo, Carlo Carretto, Carlo Maria Martini, Vittorio Bachelet, Benedetto Calati, Ernesto Balducci, don Luigi Di Liegro, tanto per citarne qualcuno, l’esempio migliore per una vangelo della prossimità e dell’alterità.
Già in questa scelta, papa Francesco ha scelto di essere davvero il papa. Il padre di tutti.

mercoledì 23 aprile 2014

Ecco perché pregherò per papa san Giovanni XXIII


Tempo fa, quando la Chiesa navigava in brutte acque, mi capitava spesso di lagnarmi al riparo di un monastero amico. Possibile continuare così, mi chiedevo? A dissiparmi i dubbi era sempre, ed è tuttora, Guido Dotti della Comunità di Bose, un monaco dalla fede granitica e dal sorriso gioviale, il quale mi ha sempre risposto in questo modo: «Vedi, Gianni, la differente età che abbiamo mi permette di dirti che io credo perché ho conosciuto in vita Giovanni XXIII e poi ho visto iniziare il Concilio Vaticano II».
Ha ragione l’amico Guido. Troppo piccolo ho appena annusato il vento del cambiamento del Concilio, e non mi ricordo spiegazioni pastorali da parte dei miei genitori indaffarati più a tirar su famiglia che non a disquisire sulla Chiesa di Pietro. Mentre, questo sì, il sorriso e il volto del “papa buono” erano di casa, una presenza assidua, nelle foto, nelle medaglie, persino la mia catenina di battesimo, che ancora indosso, porta la figura di papa Giovanni che abbraccia un bambino.
Confesso che il non aver conosciuto papa Giovanni mi ha procurato sempre una sorta di angoscia, oppure invidia nei confronti di chi ha avuto questa grazia. Cresciuto in seguito a pane e Rahner, ho avuto il privilegio di seguire da vicino il grande pontificato di Giovanni Paolo II. Ventisette anni non sono pochi. Ho visto le conversioni dovute al papa polacco, ho annotato le vocazioni sacerdotali arricchite dal suo esempio, la spinta rivoluzionaria rispetto a un’idea di economia e sviluppo globale, ne ho scritto anche sulle sue non felici (a mio parere) scelte ecclesiali, rispetto a un governo della curia lasciato deperire anno dopo anno e a molte nomine vescovili e cardinalizie di stampo conservatore (penso, a  riguardo, che su questo tema la critica storica e l’immediatezza giornalistica siano d’accordo).
Ho visto il cuore dei fedeli rotto durante gli ultimi giorni della sua malattia. E piazza San Pietro immersa in un dolore e un misto di preghiera come non mai.
Però io mi inginocchierò, domenica 27 aprile, soprattutto per papa Giovanni, il mio santo della porta accanto. Non per una questione di simpatia. Ma perché con papa Giovanni ho imparato a desiderare una speranza e un futuro, quel “qualcosa” di misterioso che superando latitudini e longitudini cambia il mondo. Una mano tesa che la Chiesa offre all’uomo, mendicante d’amore. Mentre con Giovanni Paolo II regnante, ho avuto sempre il sentore che la Chiesa si identificasse con il mondo, o perlomeno che la Chiesa volesse impadronirsi del mondo, e non cambiarlo.
Il sorriso, da una parte. L’audacia, dall’altra. Il dialogo. E la battaglia.
Così, quando alcuni mesi fa, papa Francesco ha permesso la canonizzazione di entrambi nella stessa data, ho capito che la Chiesa e il suo corpo mistico va molto più in là di una semplice, benché importante, festa popolare in onore di un “santo subito”. Quasi volesse dire: “santo subito”, ma “santi insieme”.
Una furbata gesuitica? Forse. La sapienza millenaria della Chiesa? Direi di sì.
Ecco perché il 27 aprile sarò lì, in piazza San Pietro, a godermi lo spettacolo dello Spirito che soffia dove vuole e di una Chiesa che è viva, autentica sposa del bene e della felicità.
Tanto, prima o poi, arriverà quel giorno in cui potremo dire anche noi: «vedi, caro amico, io credo perché ho conosciuto papa Francesco. E ho visto iniziare la riforma della Chiesa».
Una scommessa che vale questo bel futuro che abbiamo davanti.

martedì 22 aprile 2014

L'attico di Bertone e il don Milani resuscitato


Tutta colpa di papa Francesco. Se non fosse per lui, con le sue scelte di sobrietà e coerenza evangelica, oggi non ci sarebbe tutto questo gran parlare intorno all’attico ristrutturato in cui andrà a vivere l’ex segretario di Stato, il card. Bertone. Una sfortunata tempistica per l’ex potentissimo cardinale salesiano, oggi in “meritata” pensione. Perché, in fondo, gli appartamenti lussuosi e principeschi sono stati, da sempre, antico vanto di vescovi e cardinali. Una sorta di liquidazione “di fatto” per il servizio reso alla Chiesa cattolica. Parecchi hanno diritto a una dimora che viene loro assegnata non appena entrano in carica come prefetti di congregazioni. E non è raro che un vescovo titolare comincia già a pensare al “dopo”, quando diventerà emerito, anni prima della sua scadenza ufficiale. E ognuno fa quello che può.
Per esempio, nessuno ha mai puntato il dito contro la residenza signorile dell’ex potentissimo vicario di Roma, un bell’appartamento all’interno della struttura che ospita il seminario di Roma. A casa-Ruini, fino a pochi mesi fa, venivano visti, spesso e volentieri, all’ora di cena Silvio Berlusconi e Gianni Letta: un immobile, quindi, degno di accoglienza e rappresentanza. Ma, nello stesso tempo, sono molti i dignitari vaticani che dimorano in piccole case, modeste e anche non comode. Se il seguito di papa Francesco non è da meno rispetto al “capo” – sia il segretario di Stato Parolin che i due segretari personali del papa abitano a Santa Marta, in quasi monolocali –, sono molti gli esempi di disaffezione verso “i metri quadri”. L’attuale segretario della Cei, mons. Nunzio Galantino, non da oggi preferisce una dimora semplice al vescovado di Cassano allo Jonio, mentre il cappuccino di Boston, il cardinale Sean P. O’Malley, vive all’interna della modesta foresteria della cattedrale. È balzato agli onori delle cronache il caso dell’acquisto di una “mansion” da parte dell’arcivescovo di Atlanta, mons. Gregoy: un edificio di 1900 metri quadrati con terreno. Peccato che le rimostranze dei suoi fedeli lo abbiano fatto rinunciare, con pubblica ammenda e richiesta di scuse e perdono.
Sul più famoso, invece, Franz-Peter Tebartz van Elst, vescovo di Limburg, il papa ha accolto le sue dimissioni: 31 milioni di euro spesi per la sua lussuosa (?) residenza devono aver fatto tracimare la pazienza di Francesco. Intanto Francesco Moraglia, cardinale di Venezia, ha annunciato di abbandonare la storica sede del Patriarcato e di restituirla alla Procuratoria di San Marco. Ma nessuno forse ricorda che già trent’anni fa don Tonino Bello vivesse in una stanza modestissima dell’episcopio di Molfetta, peraltro occupata quotidianamente da gente di ogni tipo: rom, prostitute, disoccupati, senza tetto. Talvolta lo si scopriva a dormire in automobile, don Tonino: il suo letto era stato dato in prestito a qualche ubriaco o barbone della sera prima. E il card. Martini, sia a Gerusalemme che nel suo ritiro in una residenza gesuitica dei Castelli romani, certo non godeva di lussi e pregiati servizi.
Insomma, questioni di metri quadri. O di centimetri di Parola sacra. Vallo a capire! Così, nella grande reunion della sobrietà, ci entra pure il fiorentino don Lorenzo Milani, morto nel 1967 in odor di catto-comunismo ed eresia. Così, su richiesta del cardinale di Firenze, Betori, ai colleghi del Santo Uffizio, sappiamo tutti che non c’è più nessun divieto di stampa o altro nei confronti del libro più famoso del parroco di Barbiana, Esperienze pastorali. Liberi tutti, dunque: don Milani, il libro, l’esperienza di Barbiana. Perfino i cattocomunisti, oggi in gran spolvero. Peccato che Esperienze Pastorali sia stato uno dei libri più pubblicati in assoluto, e non c’è fedele parrocchiano o non credente che non l’abbia nella sua biblioteca personale. Su don Milani, poi, nonostante il diniego del Santo Uffizio, sono stati scritti libri e girati film, fiction, che hanno dato un contributo non di parte alla conoscenza di quella straordinaria figura di prete, intellettuale, educatore che fu don Milani.
Certo, ci saremmo aspettati, accanto alla richiesta di chiarimenti al Santo Uffizio, anche un atto, almeno, di cortesia storica: «scusate, abbiamo sbagliato per cinquant’anni.  Riconosciamo il nostro errore su don Milani». Giusto per far vedere che il pentimento fosse davvero serio. Macché.
Allora ci meritiamo i metri quadri. In eccesso, talvolta. Fuori Imu, sempre. Con l’unica certezza che oggi anima il mercato degli immobili, visto il deprezzamento delle case: Dio non applica sconti.

venerdì 18 aprile 2014

Sto a un anno da mezza vita

Sto a un anno da mezza vita. E inizio a pensarci seriamente. Come se il flusso della memoria e del tempo mi avvolgesse d’improvviso in un vortice di sentimenti, idee, passioni. Kronos e kairos si danno la mano, conducono la loro battaglia in perfetta letizia, non danno tregua a piedi e mani.
Eppure, a dirla tutta, mai come oggi il mio tempo è pieno. Anche profondo. Nello stesso mese hanno preso vita gli ultimi due libri, dopo che lo scorso gennaio il mio “accompagno” al duo don Gallo-De André è stato per molto tempo in vetta alle classifiche. E, nonostante i tanti impegni lavorativi, sono in fase di registrazione con il mio terzo cd di etno-music.
Un kronos che non lascia scampo, accentratore di ore fatica e sudore. Guardato a vista però da un kairos, l’avvenire di Dio nella nostra vita, che non molla gli ormeggi e sembra ritagliarsi altre mappe per un lungo viaggio.
Sto a un anno da mezza vita e ho una voglia incredibile di accompagnarmi, di nuovo, con il mio amico tempo. Smarcarmi dal resto, dall’oggi, che è già gran cosa. Dislocarmi altrove, in rifugio eremitico di legno e alture. Leggere i preferiti di sempre, accordare l’anima ai sussulti di un buon libro antico. Aprire la porta di casa e accorgersi dell’orto che cresce. Suonare la musica che si ama senza che disturbi il vicinato. Perdersi nelle biblioteche di provincia o nella viuzze del centro storico alla ricerca delle osterie di una volta. Passeggiare con il sole al tramonto senza il rischio di arrivare tardi a un appuntamento. E guardare le stelle di notte, senza timbrare l’entrata il giorno successivo.
Sono un innamorato di rotte geografiche e cammini dell’anima.Mi bastano esse.
In attesa dell’aion, il tempo migliore, alzo in alto il calice di un buon rosso d’aprile.
A un anno da mezza vita, sto oggi in una delle piazze più belle d’Italia, a Trieste. Di fronte il Mediterraneo, il mare nostrumin strada c’è odore di spezie. Ascolto le litanie della chiesa ortodossa, più in là il tempio ebraico attende shabbat e, di spalle, il vento di est sembra azzittire il calcare del Carso.
Tutto è sospeso. Chissà, forse sono già navigante, goloso di solitudine.
In attesa di salpare verso porti più insicuri.

martedì 15 aprile 2014

La mia Pasqua, a tavola con Dio


Le immagini bibliche che mi inseguono durante ogni triduo pasquale sono quelle della mia famiglia alle prese con fornelli e intingoli vari, dove la cucina era tempio e liturgia di vita. Non riesco a spodestarle dal mio inconscio. Gli odori attraversavano gli spazi della casa e ti accorgevi, davvero, oltre ogni rituale sacro, che veniva Pasqua.
Mia madre cominciava con un brodo di gallina ripieno di piccole polpette di verdura e carne, poi il trionfo di formaggi e uova. E, ovviamente, l’agnello alla brace, in memoria di racconti biblici di liberazione e di schiavitù. Pur non sapendolo – i miei genitori appartenevano a un’Italia contadina e povera –, nei loro gesti profumavano le parole dei profeti biblici, e il respiro di un Dio che non gli dispiaceva annusare, assaggiare, infine gustare.
Gesti semplici, mani di contadini e operai, pronte ad accogliere la maestosità e, insieme, la semplicità di una festa di tutti. Se lo tramandavano di generazione in generazione, di padre in figlio, di contadino in contadino. In fondo, le uova, così come il latte per fare il formaggio, non sono il simbolo della vita, della creazione? Anche il camino era sempre acceso, pure in Pasque calde, e avanti nei mesi. Davano calore, simpatia, accompagnavano la famiglia nei ricordi della guerra da poco passata (la seconda guerra mondiale), e la famiglia era, allora, un pezzo di pietra sociale che costruiva quella promessa e quella fedeltà biblica che hanno forgiato la storia dell’umanità. Una promessa “familiare” che insieme diventava amore coniugale, etica del sorriso, amicizia condivisa, solidarietà diffusa, pratica del bene comune. Questi sì, valori non negoziabili.
Ho sempre pensato che la parte più bella della storia del mondo si svolgesse a tavola. Ecco perché oggi ho grande nostalgia di “stare insieme” durante le feste pasquali. Le letture della passione e della risurrezione ne traggono vantaggio.
Quando Dio si siede vicino all’uomo è bello perdersi in esso. In casa si attendeva l’ospite, e ci si preparava ad accoglierlo, con ricche libagioni e buon vino. E quel vangelo che poi andavano ad ascoltare a messa, non era così lontano dalle mura di casa.
Questa è la mia Pasqua. Onore al Dio che si è fatto carne e promessa di fedeltà al Dio della vita.

mercoledì 9 aprile 2014

Il mio libro sulla Chiesa di papa Francesco


Un libro diverso. Non è il peana di vescovo Francesco. Non sono abituato a incensare nessuno. Però ricordo molto bene quella sera del 13 marzo di un anno fa in piazza San Pietro, ad attendere l’habemus papam con curiosità giornalistica e passione da credente. Quel cognome, Bergoglio, e quel nome, Francesco: un’emozione unica. Lo Spirito sapeva di nuovo riempire in un abbraccio ancestrale la piazza e il cuore della gente.
Ho cominciato da lì. A rammendare, più da sarto che da cronista, news, novità dal vaticano e dintorni e scampoli di passato di una Chiesa spesso messa ai margini. Il mio blog, questo blog, mi è stato d’aiuto. Improvvisamente il mondo cattolico ricominciava a parlare, dialogare, perfino a fare polemica. Mi sono venuti in mente subito i profeti dimenticati, i nostri mons. Arnulfo Romero, don Tonino Bello, Carlo Carretto, il card. Martini, dall’altro mondo dom Helder Camara, il mio amico don Andrea Gallo, morto troppo presto per non rallegrarsi di persona con il “suo” Francesco, e ho immaginato che una mano intrisa di sudore argentino li venisse a tirare fuori dai loro sepolcri dimenticati dalla Chiesa ma non dal popolo di Dio, e li riesumasse a nuova vita. Risorti, diremo da cristiani.
Ecco perché ho voluto scrivere questo libro, in un modo forse un po’ diverso. Ed ecco perché ho scelto, per convinzione, un editore cattolico, almeno per questa volta. Non mi sono dilungato in una cronaca del “papa venuto da lontano”, ma ho cercato di dare gambe e fiato a una nuova speranza. La scrittura, a volte, è un’incredibile arma a disposizione per rendere sempre viva la memoria collettiva e immaginare la speranza.
Ho cercato di incamminarmi verso tracce di vangelo, più che nella coltre fumosa dei comunicati stampa o nelle sagrestie odoranti di vecchio. Perché, con Francesco, è di nuovo il volto sorridente e misericordioso del Gesù storico che ci conduce per mano lungo i sentieri della “buona battaglia”.
Chiesa anno zero. Una rivoluzione chiamata Francesco. Sì, ammetto, il titolo è forte. La Chiesa riparte da zero. E per me Francesco è una vera rivoluzione. Oltre la cronaca.
Per dirla con Karl Rahner, teologo gesuita, rinchiuso in questi anni nel corridoi soporiferi e clericali della teologia ufficiale e dei consigli del Sant’Uffizio, «per una fede che ama la terra».
Già, ancora oggi: la fede che ama la terra. Che gusto a dirlo di nuovo.

(Sono a disposizione per presentazioni o semplicemente per discutere di Chiesa e mondo: gianni@giannidisanto.it)