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mercoledì 21 maggio 2014

Cei: la rivoluzione di Francesco è arrivata

La rivoluzione francescana è arrivata alle porte della Cei. I due terzi dei vescovi italiani, dopo un dibattito appassionato che ha visto diviso in due l'episcopato italiano ( e già questa è una notizia) tra i fautori dell'elezione diretta, 104, e gli altri che volevano che a decidere fosse solo e unicamente il papa, hanno deciso per la terna di nomi da presentare al papa. Il meccanismo è uguale e tale a quello dell'elezione del presidente dell'Azione cattolica italiana, che proprio nelle stesse ore eleggeva il suo nuovo presidente. Terna di nomi che comunque deve per la parte di ognuno, raggiungere la soglia del 50 per cento dei consensi. In definitiva, il papa sceglie all'interno di una terna di nomi che abbiano avuto il consenso popolare, ma se non si tratta di un'elezione diretta, poco ci manca.
Che succede ora? A novembre verrà stilato il regolamento, e verrà eletto il nuovo presidente della Cei con il sistema nuovo. Bagnasco si dimetterà ora? Può darsi. In questo caso il papa nominerà presidente ad interim un nome diverso. Bassetti, Bregantini, Forte? Possibili outsider. Quello che è sicuro è che oggi si è certificata la fronda e la spaccatura all'interno del potente episcopato italiano, per oltre vent'anni ligio e compatto nei suoi doveri elettorali e soprattutto a servizio del potente cardinale presidente, prima Ruini, oggi Bagnasco.
Siamo dunque al ribaltamento di un sistema decisionale che ha retto dal 1986 in modo univoco e forte dell'appoggio anche dei papa che lo hanno consentito. Da oggi i vescovi si contano, discutono, danno battaglie per le loro idee. Da oggi il popolo di Dio sa che il futuro della sua Chiesa d'Italia è in mano non a logiche da sottobosco curiale ma alla vitalità chiara e trasparente di una forma di ecclesia che ha nella democrazia e nella verità la sua forza primordiale. 
Siamo entrati, da oggi, nel pieno del pontificato di Francesco. Una giornata così non si era mai vista a Roma. Eppure una giornata bella. Il vangelo vive per le strade dell'uomo e non si nasconde nelle sagrestie. E siamo solo all'inizio.

lunedì 19 maggio 2014

La carezza dolce di Francesco ai vescovi italiani


Il soffio di papa Francesco è sceso sui vescovi italiani come una carezza dolce in una giornata di maggio quasi autunnale. “Seguitemi”: basta questo monito. Come Pietro seguì Gesù. È l’invito iniziale che papa Francesco fa nella sua prolusione di apertura alla 66a Assemblea generale della Cei. Seguitemi. Non abbiate paura. Così, chi cercava nelle parole del papa simboli di politica ecclesiale da poter offrite all’uditorio affamato di guerre tra prelati, ha trovato invece la saggezza del padre che consola, consiglia, sprona.
Un papa Francesco insolitamente “spirituale” questo visto all’Assemblea generale della Cei. Prodigo di consigli spirituali, perché in fondo fare il vescovo è mettersi a disposizione del proprio popolo, quel popolo di Dio che sa riconoscere il pastore buono, la Chiesa bella. Non reclama statuti da rinnovare il papa, anche se il presidente “uscente” Bagnasco ne accenna nel saluto di apertura. Spetta in ogni caso ai vescovi italiani decidere sul futuro della Chiesa italiana. Non dice cosa debbano fare nel dialogo con la società e con la politica. Non si impiccia di questioni che non sono di sua competenza. Eppure, quel “seguimi” è il più importante dei segni che si potevano ascoltare. Un “seguimi” che ha la suggestione della primizia di Pietro e la misericordia di chi si affida al Padre.
La carezza del papa così è scesa lieve e indolore, eppure fitta e condensata di messaggi forti. Una Chiesa di carità senza verità non va da nessuna parte. Seguire il Regno significa vivere decentrati rispetto a se stessi. L’unità nella collegialità è l’esercizio primario della profezia. La Cei deve essere uno spazio di comunione. La mancanza di unità è il peccato più grande della comunità ecclesiale. Le chiacchiere, le bugie, le lamentele, la durezza di chi giudica senza coinvolgere, la gelosia, l’invidia: quanto è brutto il cielo di chi è suggestionato da se stesso. Ritornare dunque all’essenziale, non alle adunate di piazza, sembra suggerire Francesco. Andate incontro a chiunque chieda ragione della speranza che è in voi. E poi ancora: i disoccupati, i migranti, la famiglia (tutta la famiglia, anche chi vive perché ferito negli affetti), l’abbraccio con l’umanità stanca e sola ma bisognosa di amore.
Tutto qui? Sì. Una carezza dolce, sulle orme del vangelo. La scialuppa di salvataggio per una Chiesa italiana orfana di valori non negoziabili e adunate di piazza, pienamente inserita in un tempo di riconciliazione e nuova speranza.
La carezza, non il bastone. Ma una carezza che rinfresca e si immerge dentro il volto di ogni prelato e laico, dove dimorano pianto e sorriso.
La presidenza della Cei farà il resto, sotto l’occhio attento e benevolo di Francesco, chiaro. Redimerà statuti, cambierà i suoi rappresentanti. Ma il lessico della nuova speranza oggi, stasera, in un pomeriggio di maggio autunnale, ha di nuovo solcato la vita degli uomini. Ha annusato il gregge di Dio. Per una nuova primavera della Chiesa italiana.

venerdì 16 maggio 2014

La sbornia dei tre papi santi


Non mi ha stupito l’invito rivolto da papa Francesco, alcuni giorni fa, ai membri degli Istituti secolari, nel suo stile diretto, a braccio. Durante l’udienza, qualcuno ha chiesto quando procederanno le cause canoniche per Giorgio La Pira e Armida Barelli e il papa ha replicato, alludendo a Karol Wojtyla: «Andate avanti, eh, il popolo qui, nel 2005 ha gridato “santo subito” e poco dopo è stato fatto santo, gridate voi per questi due, grazie, è un piacere».
Da tempo, infatti, scrivo che l’abbinamento Roncalli-Wojtyla sugli altari, è stato un passo “voluto” e “dovuto” da papa Francesco. Nessuno mette in dubbio i tanti miracoli fatti da Giovanni Paolo II: le conversioni pastorali, i cammini di fede, e anche le guarigioni corporali. Solo che Bergoglio ha voluto far festa anche con quella Chiesa che, negli ultimi trenta anni, è stata messa ai margini avendo pensato al Concilio Vaticano II come una grande casa dove costruire percorsi per una Chiesa libera, audace, coraggiosa, in dialogo con il mondo, accanto ai poveri, e povera nei suoi templi e nei suoi agi dorati conquistati in anni di ammiccamenti con il potere. Quella Chiesa della profezia e della speranza che aveva scelto il Concilio Vaticano II come stella polare del proprio cammino, e aveva avuto in don Tonino Bello, David Maria Turoldo, Carlo Carretto, Carlo Maria Martini, Vittorio Bachelet, Benedetto Calati, Ernesto Balducci, don Luigi Di Liegro, tanto per citarne qualcuno, l’esempio migliore per un vangelo della prossimità e dell’alterità.
La notizia della prossima beatificazione di Paolo VI, il papa “intellettuale”, non fa altro che rimescolare le carte: non c’è solo Wojtyla, come forse qualche principe della Chiesa voleva far credere. Personalmente non mi piace questa sbornia dei tre papi santi. Non credo che il mondo, e la Chiesa, abbiano bisogno oggi di una papolatria indotta. Ma mi rendo conto che papa Francesco abbia scelto di essere davvero il papa, il padre di tutti, indicando un cammino di santità che attraversa storie di vita diverse e, qualche volta, contrastanti.
“Santo subito” non può essere l’unica acclamazione pro-canonizzazione, l’unica voce di popolo intonata al canto dei regnanti di turno e alle mediazioni ecclesiali. Perché invece, spesso, quasi sempre, quel “santo subito” è il grido sommerso e nascosto di una fede che sa riconoscere i suoi santi in ogni angolo di terra e paradiso. Santi spesso umili, poveri, uomini e donne laici, religiosi, vescovi di piccole città, martiri della fede sparsi in ogni angolo di mondo, santi del popolo di Dio che con la loro vita ci fanno capire quanto il vangelo sia più vicino all’uomo di quello che crediamo. Santi che già compiono miracoli, senza aver avuto ancora nessuno avvallo pontificio, e che continueranno a farli, alla faccia delle commissioni e dei tribunali diocesani. Santi che sono, già oggi, i nostri angeli protettori. Le nostre ali di riserva di un vangelo della gioia e della speranza.
Se penso alle conversioni che i libri di Carlo Carretto ancora attuano nel cuore delle persone, se guardo all’albero nel cimitero di Alessano dove sono appesi migliaia di bigliettini con suppliche, richieste di auto, intercessioni a don Tonino Bello, se considero il martirio di mons. Arnulfo Romero mentre dona se stesso nell’ultima messa, allora ogni “santo subito” impallidisce di fronte alla beatitudine di un popolo di Dio che sa riconoscere chi si incammina “in perfetta letizia” sui sentieri del vangelo.
Sì, abbiamo bisogno di santi, angeli protettori. Non c’è bisogno di gridarlo, essi sono già lì che ci guardano e ci accompagnano per mano.