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mercoledì 27 agosto 2014

Diario d'Agosto/11. E mi imbattei in una messa tridentina...


Sabato 23 agosto ho partecipato alla messa al Santuario di Nostra Signora della Rovere in San Bartolomeo al mare, località rivierasca del ponente ligure. L’orario, molto comodo per i vacanzieri, è per le ore 21.00: le altre messe nei dintorni volgono per le 17.00, e mal si conciliano con il ritmo balneare. Il posto dove è ubicato il Santuario, invece, è splendido, riparato, lontano il giusto dal mare, e sotto tiro di un vento rinfrescante.
Do un’occhiata all’interno, sobrio al punto giusto: c’è un crocifisso a cui si riferiscono molte guarigioni (così dal dépliant…), il silenzio all’interno è vero, rispetto alle urla e ai schiamazzi che arrivano dalla trattoria antistante l’entrata.
Eppure, c’è qualcosa che non mi convince. Poco prima della celebrazione liturgica, il prete, fuori, parla al cellulare. Si agita. C’è molto caldo ma lui, il prete, è vestito di tutto punto… come una volta… con la talare d’ordinanza che ormai vediamo solo nei film di don Camillo e Peppone. Chissà come farà a resistere a questo caldo, mi domando. Il collo è chiuso dalla divisa ecclesiastica che andrebbe bene semmai per un pieno inverno, eppure la conversazione attraverso lo smartphone ha un qualcosa di surreale, il vecchio e il nuovo insieme.. mah..
All’interno del Santuario una suora fa tutto. Declama i canti, legge le giaculatorie, recita le litanie. Non ci sono famiglie, e bambini. Solo adulti. Un libretto di 500 pagine sui banchi recita: canti sacri. Ben 150 pagine sono dedicate alla Madonna, Regina, e non alla “donna della porta accanto”, come amava definirla don Tonino Bello. Scorgo con avidità il libretto: non conosco un canto, quasi tutti in latino, eppure vado a messa da circa cinquanta anni. Dei canti post-conciliari nemmeno l’ombra. Sequeri, Frisina, chi sono?
Un altro foglio messo sui banchi non cela la voglia di antichi testi. Litanie di riparazione, per il pontefice, benedizioni solenni. Il latino caccia l’italiano.
Comincio a pensare di essere capitato nel covo di una messa tridentina, ma accingo l’anima a respirare il sacro. E comunque, per me, è la prima volta. Mi sento ospite, almeno inatteso.
Il prete, sempre quello del telefonino, entra perfettamente in orario. Ha il tricorno. Se lo toglie e si mette spalle ai fedeli. Non capisco. Eppure ho visto tantissimi santuari o chiese antiche abbracciare la riforma liturgica del Concilio Vaticano II con la costruzione di un altare piccolissimo davanti a quello storico, dove prima i sacerdoti celebravano la messa tridentina. Qui, manco a parlarne.
L’officiante si muove come un birillo. Si gira e rigira su se stesso, tra il momento in cui si volge verso i fedeli  (pochissime volte) e quando invece volta loro le spalle.
Tutto sembrerebbe volgere all’esaltazione del sacro, eppure non è così. Perché, in realtà, tutto sembra avvolto da un senso del ridicolo: il declamare e il gesticolare del prete, il canto sguaiato della suora, la solitudine di una comunità che non c’è, il profumo di un sacro che se ci fosse dovrebbe sentirsi, persino i colori del sacro tacciono inermi.
Mi viene in mente di accogliere l’eucarestia in piedi e con la mano. Poi, ricordo a me stesso, di essere un ospite. Così mi arrendo. L’altare maggiore è chiuso da una specie di cordone di legno che forma però un inginocchiatoio: i fedeli, a turno, si inginocchiano per ricevere la comunione in bocca, e il prete va da una parte all’altra dell’inginocchiatoio come una trottola (circa quattro metri di lunghezza per ospitare circa sei persone genuflette).
La messa finisce. Fuori si sta bene. La gente sta consumando gli ultimi avanzi del pasto, i bambini fanno rumore e qualcuno canta. Rispetto a prima, stavolta il rumore mi abbraccia e sembra una dolce armonia celeste.
Chissà cosa sarebbe successo se non mi fossi inginocchiato e avessi desiderato prendere la comunione sulla mano. Me l’avrebbe data, l’officiante? Chissà.
Intanto mi viene spontaneo recitare un Ave e Maria, fuori. Chissà cosa penserà la “donna della porta accanto”.

mercoledì 20 agosto 2014

Diario d'agosto/10. Dio è un bacio?


Dio è un bacio? La domanda irrompe improvvisa tra i miei spostamenti monacali in questa estate vestita d’autunno, tra la Comunità di Bose, Camaldoli e l’Abbazia di Sassovivo, erede del pensiero più genuino di fratel Carlo Carretto. Già, Dio è davvero un bacio? Prendo in prestito da uno dei leit motiv di dom Benedetto Calati, straordinaria figura di profeta conciliare e indimenticato priore generale dei camaldolesi dal 1969 al 1987. Perché ho l’impressione che tra Dio-abbraccio, Dio-incontro, Dio-regola di vita, Dio pronto ad assecondare la sua Chiesa come un ospedale da campo dopo la battaglia, e il solito Dio-rituale addobbato a festa per la liturgia e la celebrazione del sacro, qualcosa oggi manchi. Alla teologia, alla vita delle comunità, ai desideri spirituali. Me lo diceva già, diversi anni fa, il mio maestro spirituale, don Enrico Ghezzi, quando parlava in epoche non sospette di “Dio-godimento”, senza scomodare l’opera omnia di Sigmund Freud (che comunque aveva bella aperta sul suo tavolo da lavoro… da parroco di periferia). Forse sarà stata l’impronta di dom Calati, che aveva conosciuto nei suoi frequenti incursioni bibliche proprio a Camaldoli.
Forse. Fatto sta che il Dio-godimento diventa, ancora oggi, nel tempo di Dio della filosofia positiva e laica, dove anche la guerra viene accettata se “serve” per difendere inermi (e la religione cristiana, e i cristiani martoriati nel resto del mondo), il primato di un sacro pieno di passione per la natura umana e la natura divina di Dio stesso.
È forse troppo pensare a un Dio che è un bacio, trent’anni dopo Calati, lasciandosi avvolgersi da un erotismo sacro che, prima di essere teologia che ci insegna a incontrare l’uomo, è esso stesso innamoramento e viscerale pulsione d’amore?
Mi chiedo: prima delle leggi sacre (e qui ci siamo…), prima della preghiera, del silenzio dell’anima, del dialogo con l’uomo oggi, non credenti compresi, dell’ecumenismo, dell’abbraccio con la povertà – nel mio recente libro scritto a quattro mani con il nuovo priore di Camaldoli, dom Alessandro Barban, c’è traccia di questa ricerca terrena-escatologica, “Il vento soffia dove vuole. Confessioni di un monaco”, Rubbettino editore) -, non sarebbe il caso di (ri)educare le nostre Chiese, le nostre catechesi, persino i nostri incontri conviviali, a un assaggio, individuale certo, di un Dio-godimento che è un bacio? Il Dio del sapore del cielo e della terra, della porta accanto, il Dio di quel conviviale, proprio degli innamorati, che non ha paura di lasciarsi “andare” in un erotismo della Parola che diventa godimento nel momento stesso che la si ascolti e la si pronunci?
Dio è un bacio. È davvero difficile ricominciare da qui?

martedì 19 agosto 2014

Diario di agosto/9. Quando di mattina presto passava il lattaio


Una volta passava il lattaio, di mattina presto. Il latte, appena munto dalle mucche generose delle vicine malghe e campagne, veniva trasportato in contenitori di alluminio da un uomo dal mestiere dimenticato, che poi lo versava nelle bottiglie di vetro del “consumatore finale”, si direbbe oggi, porta a porta. Il lattaio, compagno di (s)ventura di altri mestieri sparigliati nella corsa al benessere, come il corniciaio, il fabbro, il calzolaio, il falegname. Artigiani dell’ora prima e di piccoli utensili utili e non consumati dal tempo e dalla fretta del vivere.
La frutta e la verdura venivano come manna del cielo dai parenti più stretti, ma si pagava comunque: il giusto. Verdura sporca dalla terra, così le patate, le carote. Verso fine di agosto tutta la famiglia si univa nella produzione casalinga dei pomodori. Piccoli, adulti, donne, uomini, anziani, persino i malati: l’unica vera prova di democrazia basata sulla costituzione non scritta della sopravvivenza. Ci si arrampicava sugli alberi alla stagione giusta per restituire loro, attraverso il “ratto” della raccolta, la libertà di poter ancora una volta creare vita in una simbiosi con l’ambiente che teneva a bada il ciclo dell’evoluzione naturale.
L’acqua era quella della fonte più avanti, e il pozzo era la riserva idrica per la terra che non ammetteva bollette. Il camino riscaldava la casa, anche negli inverni più rigidi. E le delizie della carne cotta alla brace e sotto la coppa, diventava occasione per la trasmissione orale del racconto della vita. I valori occupavano il primo posto a tavola, apparecchiata con bicchieri di vetro e posate di almeno qualche generazione prima. La plastica non esisteva. Le campane della chiesa suonavano all’ora giusta. E le feste patronali erano l’occasione propizia per mettere il naso fuori dalla porta: anche il più piccolo paese si sforzava di ospitare un concerto di rilevanza nazionale.
Poi, un giorno, un tempo, tutto ciò smise di esistere. I nostri padri, per necessaria smania di ricchezza e di salto sociale, dimisero le terre ereditate dai loro antenati con fulminea rapidità. La plastica e la carta si appropriarono delle tavole. La tv cacciò la parola raccontata. Il web disse che eravamo tutti uguali.
Poi, un giorno, un tempo, le feste patronali cominciarono a rincorrere i mestieri di una volta, il formaggio fatto in casa, il latte intero appena munto, il dialetto a farsi di nuovo vivo. E tanta bella musica tradizionale del posto (si direbbe oggi, musica etnica).
E a me pare che il lento ritrovarsi del ritmo delle stagioni e della vita voglia riprendersi il giusto posto che gli spetta. Oggi, diciannove di agosto di un duemilaquattordici che non avrei mai pensato, attendo il lattaio che bussa alla mia porta. Dovrò attrezzarmi con bottiglie di vetro. Quelle che ho sono tutte di plastica: contengono acqua.

sabato 16 agosto 2014

Diario d'agosto/8. Sass de Stria, sulle tracce della Grande Guerra


Il fascino (storico) della Grande Guerra mi ha raggiunto oggi sul Sass de Stria, straordinaria vetta dolomitica di fronte a sua maestà il Lagazuoi. Ben 2477 metri da attraversare roccia su roccia, anche se non è la vetta a impressionarmi. Questo cammino storico-alpinistico attracca dal Passo Valparola, davanti al Museo della Grande Guerra. E più la vetta si avvicina, più mi vengono in mente i soldati, dei diversi fronti, gli italiani e gli austriaci, che scavano trincee nella nuda e forte roccia dolomitica a età insospettata. Mentre mi inerpico con il mio abbigliamento tecnico leggero da montagna, penso a quei vestiti, lana e stracci, a quelle scarpe appiccicate ai calzettoni con la colla fatta in casa, che avvolgevano quei poveri ragazzi a temperature che d’inverno vanno sui meno venti e meno trenta gradi. Mani che scavano, che tentano di accendere fuoco, mani infreddolite e ghiacciate tra la neve fresca e qualche fucile d’ordinanza da lubrificare e riscaldare.
Ho pensato a loro, la gioventù migliore di entrambi i lati, sul Lagazuoi gli italiani, al Sass de Stria gli autrici, mandati a difendere l’onore di un pezzo di terra per le idee disperate della follia imperialistica. Come avranno fatto a resistere, ancora non ho capito. Mentre io, e altre decine e decine di escursionisti, arranchiamo col passo difficile di chi ha vita facile. Sono saliti fin quassù, da dove si domina in una vista fantastica la Val Badia, la Marmolada, e tutto il Passo Falzarego e il Lagazuoi, sono saliti con le loro gambe e l’aiuto di qualche buon mulo. Poi braccia, fiato e allegria attaccata al grappin.
Gli alpini italiani hanno fatto una gran bella opera, mettendo in ordine queste trincee in un contesto ambientale superbo, e rendendo infine anche le nefandezze di una guerra mondiale l’occasione per un libro di storia ancora aperto e ancora tutto da scrivere. Invece di gite a Barcellona, porterei i nostri ragazzi delle scuole a incamminarsi per i rifugi delle Dolomiti. Certo, si suda. Si soffre il caldo e il freddo, non ci sono discoteche, ma si capiscono un sacco di cose.
Il Sass de Stria è una delle più belle camminate delle Dolomiti italiane. Poi, a valle, sul Passo, preso d’assalto dai motociclisti per lo più tedeschi, un odore di formaggio d’alpeggio e di speck ti insegue ovunque. E penso a cent’anni fa, lo stesso odore, lo stesso sapore, messo a tacere da qualche fucilata.
Nelle vette di montagna ci sono sempre delle croci. Anche al Sass de Stria. Ho sempre pensato che esse, più che lo sguardo del Creatore, rappresentino in realtà l’estensione dell’abbraccio dell’umano all’umano, in un vortice di pace che già esso stesso è vita. Perché solo chi si incammina per i passi d’altura, sa ascoltare al meglio il respiro dell’anima.

venerdì 8 agosto 2014

Diario d'agosto/7. La grande bellezza dell'estate dei campi estivi


L’estate è accompagnata dai campi estivi. Azione cattolica, Scout, Libera, parrocchie, Legambiente, le missioni in terre lontane e altrettante associazioni e movimenti che trasudano di gioventù buona. Le città sono prese d’assalto dal turismo di massa, ma sono i territori più nascosti ad accogliere la grande bellezza del coraggio e del sorriso. Una ragionevole buona speranza percorre l’Italia intera oppure naviga e sbarca verso latitudini dove fame e miseria hanno più bisogno di braccia e mani.
I giovani hanno un cuore d’oro, innocente e battagliero. Gli adulti che stanno loro vicino, a volte sono cuochi improvvisati, educatori incasinati e accompagnatori sobri che prendono tempo alla loro estate e alle loro famiglie, sacerdoti che capiscono quanto sia più bello, almeno in estate, celebrare una messa in alta montagna che non in una parrocchia di provincia.
C’è chi mette sul piatto della bilancia emozioni e doni particolari, chi il tempo delle proprie mani, chi invece la capacità di ascoltare semplicemente l’altro.
Ho sempre pensato che i campi estivi riescano bene laddove l’ambiente che circoscrive l’esperienza sia bello, sobrio, pieno di sole. Oppure che abbia bisogno del nostro sole, del nostro calore. Mare o montagna. Ma anche Africa e Medioriente, o il continente latino-americano, dove spesso il dolore di vivere dei popoli offusca la voglia di speranza. L’importante è che il creato sia contento di una presenza umana diversa, concreta, gioviale, che dia senso all’ambiente stesso e sappia valorizzarne i suoi colori e custodirne i suoi odori. Ecco perché penso, e non da oggi, che i campi estivi (per giovani e adulti, nelle lontane missioni…) siano una delle esperienze civili e corporali più vicine alla teologia della bellezza e del gusto di Dio. Le mani si avvicinano ad altre mani, le bocche spalmano baci, gli abbracci non hanno sesso, età e religione. Il sorriso è vero, non spregiudicato.
Se i nostri riti liturgici e sacri, perfino i riti democratici, sapessero raccogliere questo coraggio estivo, gran parte della società oggi sorriderebbe di più. Scommettere su questa solidarietà e amicizia diffuse non è ipotesi utopica. È, invece, la realtà di un sentimento popolare che ha solo bisogno di essere cresciuto, allevato, e infine educato, per persone che sapranno riconoscere il bello e il giusto.

mercoledì 6 agosto 2014

Diario d'agosto/6. L'inatteso, tra le vette delle Dolomiti


Con Giandomenico sembra che ci conosciamo da tempo. Le stesse letture, la squadra del cuore, la stessa passione per la Chiesa e lo stesso desiderio per un’Italia bella, pulita e giusta. Da quel 13 di marzo del 2013, giorno dell’elezione di Bergoglio, lui ha deciso di seguirmi in modo assiduo sui social network, in questo blog e nei giornali dove le mie riflessioni vengono ospitate.
Un amico virtuale, ma costante e più vicino di tanti amici cosiddetti “veri”. Così, quando ha scoperto che ero per rifugi del Cadore da una semplice foto pubblicata sul mio profilo facebook, mi ha scritto un messaggio per dirmi che anche lui, da buon pugliese e amante del mare, era da quelle parti a ritemprarsi l’anima e, in meno di mezza giornata, abbiamo organizzato una messa di montagna all’ora dell’imbrunire insieme ad altri amici (sempre conosciuti via facebook) e poi, a Dio piacendo, una gustosissima cena in un rifugio d’alta montagna tra le vette del Pelmo e le Tofane.
Lascio ai sociologi la morale della favola. Mi limito a osservare che mentre ci raccontavamo le nostre vite “a tavola con Dio”, abbiamo potuto dare sfoggio del nostro lato migliore, io raccontando le qualità organolettiche del Pinot nero riserva di Muri-Gries (e insieme addentrarmi in ricostruzioni storico-religiose dove l’abbazia di Muri-Gries se le dava di santa ragione in fatto di regole monastiche con i fratelli maggiori di Novacella, e alla fine riuscire vincitori almeno nella vinificazione del loro vino, piccolo prodigio dell’Alto Adige, in particolare il Lagrein), lui con citazioni di Maritain impastate con l’esperienza lavorativa da promotore finanziario, mentre la sua giovanissima figlia scopre il lato del dono in una missione in Tanzania. Anche Marilena e Chiara non sono state da meno, aggiungendo alla colta e divertita conversazione quel “di più” che solo l’animo femminile sa fare, non disdegnando una dotta disquisizione sulla ricetta dello strudel di Chiara che ormai su facebook ha molti adepti.
Il cortese proprietario della baita ci ha concesso di fare quasi mezzanotte a tavola, ora tarda e improponibile in qualsiasi luogo montano, forse deve aver capito che eravamo al primo incontro. Fuori era freddo, circa dieci gradi, ma la mezzaluna illuminava il creato delle vette in un silenzio carico di ascolto.
Ci siamo promessi un’altra visita, questa volta a Roma, la mia città. E tornando verso casa, per un attimo, ho pensato che Dio, quella stessa sera, abbia voluto regalarmi la gioia dell’inatteso.
Sono andato a dormire così, con l’iPhone tra le mani aperto su facebook e le cuffie che accarezzavano dolcemente le mie orecchie con Officium, il sax notturno di Jan Garbarek e le voci ancestrali di Hilliard Ensemble, per l’ultimo capitolo della notte fino all’alba più vicina.

martedì 5 agosto 2014

Diario d'agosto/5. Ho visto la Madonna, dopo colazione


Visita a Medjugorje dal 30 agosto al 5 settembre organizzata, tecnicamente, da un’agenzia di viaggi ma con la guida spirituale di un prete che tra l’altro è il responsabile dell’Ufficio Pellegrinaggi di una diocesi del nord est. La notizia, apparsa sul giornale diocesano, appare all’improvviso ai miei occhi nel mio ritiro cadorino.

Trascrivo il trafiletto, così come appare nel giornale e nel profilo facebook dell’interessato.
II, III giorno Medjugorje-Mostar.
Salita facoltativa sulle colline delle apparizioni (Krizevac e Podbrdo), incontro con alcuni veggenti (se presenti e disponibili) e visita ad alcune comunità ecclesiali presenti a Medjugorje per ascoltare le loro testimonianze. Eventuale escursione a Mostar. Prima colazione, pranzo cena e pernottamento in albergo.
IV giorno.
Medjugorje e Ragusa. Prima colazione. Quindi dopo aver assistito all’apparizione della Madonna ai piedi del Podbrdo, partenza per Ragusa…

I miracoli, si sa, non conoscono obiezioni o dubbi. Nemmeno quelli della Commissione d’inchiesta internazionale sulle apparizioni di Medjugorje capitanata dal card. Camillo Ruini e che proprio nello scorso gennaio ha consegnato il suo rapporto nelle mani di uno scettico Bergoglio. Ufficialmente non si può dire, ma nei corridoi vaticani filtra non da ora la voce che qualcosa non torni nell’”affaire” Medjugorje. Ricordiamo i fatti: dal 24 giugno 1981, nella piccola località della Bosnia Erzegovina, la Madonna apparirebbe (il condizionale è d’obbligo…) a sei veggenti, Vicka Ivanković, Mirijana Dragičević, Marija Pavlović, Ivan Dragičević, Ivanka Ivanković e Jakov Čolo. Nel 2010 Benedetto XVI affidò a una Commissione internazionale, presieduta appunto dal cardinale Ruini e composta da diciassette membri provenienti da tutto il mondo (porporati, vescovi, teologi e psicologi scelti tra i massimi esperti di mariologia e apparizioni) il compito di approfondire il fenomeno Medjugorje. Il lavoro è durato più di tre anni. Ora il dossier è nelle mani della Congregazione per la dottrina della fede, che deciderà il da farsi. Si prevedono, comunque, per la divulgazione del contenuto del dossier, tempi biblici. E si capisce il perché.
Ma, oltre ciò, è utile soffermarsi sul programma di viaggio in oggetto. La salita per vedere le apparizioni è facoltativa (in realtà il popolo dei fedeli non vede proprio nulla, i soli deputati a vedere la Madonna sono appunto i veggenti). Ma come, uno va fino a Medjugorje, con tutto quello che costa, e non fa lo sforzo di assistere al prodigio per colpa di una salitella? Poi, l’incontro con alcuni veggenti, cuore del viaggio, non è sicuro che succeda perché i veggenti potranno non essere presenti e disponibili. Ma, allora, si chiede il cronista, se non sono presenti vuol dire che non ci sono. E se non ci sono, chi la vede la Madonna? Il popolo dei fedeli? No, questo è impossibile. E allora chi la vede? Nessuna risposta al quesito, buio pesto. Ma la chicca del programma è il IV giorno, quando, dopo la prima colazione, si assisterà (veggente ovviamente presente…comunque vada un veggente lo si trova disponibile), all’apparizione della Madonna.
Nel frattempo, però, ed è giusto che i pellegrini lo sappiano, tantissime diocesi italiane hanno proibito ufficialmente viaggi organizzati a Medjugorje. In poche parole: le parrocchie non possono organizzarlo. Chissà perché.

lunedì 4 agosto 2014

Diario d'agosto /4. Il valore del riciclato


La generazione prima di me aveva il gusto del riciclato. Non si buttava mai niente, un po’ per fame, un po’ per sapienza di artigiano. Il legno e il ferro assumevano volti nuovi, la materia respirava aria nuova, e un bicchiere di vino era la compagnia giusta all’estro e al lavoro delle mani.
Succedeva anche al pane, quando, non mangiato, veniva riutilizzato in mille modi diversi da cuoche severe che sapevano persino rendere saporita e intrigante la mollica: in brodo, impasticciato con altri, in forno, a contorno di pastella. Ricordo perfettamente quando mia madre metteva sul piatto un pezzo di pane secco, ammorbidito nell’acqua, e condito con olio e sale: una bontà. Ci si divertiva e sfamava con poco.
Erano i tempi della miseria e della ricostruzione di un paese che guardava al suo futuro ancorandosi fortemente ai mestieri e alla cultura del passato. Gli operai edili gettavano calce in faccia ai muri degli altri, per poi, con abile maestria e docile opportunismo, conservarne un po’ per loro stessi: nascevano così le case che abitiamo ancora oggi, ultima cambiale in bianco di genitori a figli perduti nel consumismo sfrenato del mondo di oggi dove, se si rompe una cosa, se ne compra subito un’altra.
Nel mio quartiere trenta anni fa c’erano almeno tre calzolai e due sarti. Oggi rimane, qualche volta, dipende dal permesso di soggiorno, un rumeno che si è inventato di fare il calzolaio, antico mestiere della porta accanto. Lui è bravo, ma ha pochi clienti italiani: una scarpa è sempre meglio pagarla dai cento euro in su, altrimenti che scarpa è?
A Dobbiaco, invece, in Val Pusteria, un negozio di articoli sportivi per montagna tra i più famosi in Alto Adige, rimette a posto le suole degli scarponi da trekking. Un miracolo di sapienza e di risparmio. Lo scorso inverno ho visto recapitarmi a casa i due scarponi di mia moglie di una nota marca completamente risuolati a nuovo, al modico prezzo di 80 euro (nuovi costano 250). Funzionano. E sono pure belli.
Così oggi, quando i miei mitici scarponi di montagna, dopo 11 anni di onorato servizio, mi hanno lasciato improvvisamente a piedi nudi a soli, per fortuna, 1900 metri di altitudine, ho pensato che dovevo subito passare a Dobbiaco, che poi avrebbero mandato i miei scarponi in una fabbrica del nord Italia, dove, manco a dirlo, gli operai sono tutti rumeni.

domenica 3 agosto 2014

Diario d'agosto/3. Se l'Autostrada del Sole rimane vuota...


Nessuno. Non c’è proprio nessuno. Si viaggia che è un piacere, niente file oceaniche, e il famoso esodo di agosto se ne è andato a dormire. L’autostrada del Sole, o meglio della Pioggia, viste le condizioni meteorologiche, l’A1, è deserta. Dicono che il tempo autunnale ci mette del suo, ma non ci crede nessuno. In realtà non c’è più una lira, anzi un euro, in giro.
E sì che già da un paio d’anni l’Autosole era lo specchio dei nostri giorni, con tutte quelle automobili cariche all’inverosimile di ogni cianfrusaglia (proprio come quaranta anni fa), in partenza per i paesi natii e con a bordo i nonni (altrimenti chi lo paga il viaggio e la sosta all’autogrill?). Ieri, due agosto, e oggi, 3 agosto, non ne ho vista una di automobile familiare: evidentemente devono aver finito la cassa comune. La pensione serve a tante cose: ad alleviare i disagi del figlio disoccupato, a pagare le bollette dell’altro figlio, e a regalare la vacanza-studio all’estero al caro nipote.
C’è crisi, si vede. Non c’è viaggio. Non c’è sogno di futuro diverso. Nessuno che sorride all’autogrill, ma, peggio, nemmeno nessuno che si manda a quel paese, segno inevitabile dello sfacelo finanziario in atto. Ci si abitua pian piano a raccattare le piccole briciole rimaste. Gli stabilimenti balneari vuoti, le montagne libere dal chiacchiericcio inutile, le autostrade vuote dei rumori, le parole orfane di racconti.
Eppure bisognerebbe mandare i nostri politici a fare stages sulle autostrade italiane. Si imparano un sacco di cose. E si capisce perché il sistema Italia sta affondando, senza mezze misure.
Stamani, sul passo del Mandrioli, ero solo. Sull’E45 pochi superstiti. Sulla A14 neanche la fila classica, di domenica, per il mare. Ma che succede?
Solo la radio in macchina mi dà un attimo di attenzione. Mentre passo proprio sopra Treviso il giornale-radio racconta della sera prima, quando un fiume è straripato proprio lì e ha travolto un paesino occupato a far festa: quattro morti. Stiamo a pochi chilometri da Longarone. La storia, è proprio vero, è arida di ricordi.

venerdì 1 agosto 2014

Diario d'agosto/2. I monaci di Bose a Ostuni e la via degli olivi

A est di mare italiano, dove la terra brucia arsa dal sole e gli olivi tengono forza con la loro storia millenaria. Una masseria antica, messa lì sulla piana di Ostuni a controllare le rotte geografiche e umane dei popoli che sbarcano per fame e miseria, con una piccola chiesa che dà silenzio e offre le braccia allo spirito.
La Comunità di Bose di Ostuni è l’avamposto monacale dei destini orientali della casa madre di Magnano. Qui, nella Puglia più bella e ospitale, si coltiva il gusto del tempo e i ritmi della natura. Corsi di ebraico antico, di greco, approfondimenti biblici, convegni spirituali, meditazione e cura dell’anima. E, anche, una liturgia domenicale come non riuscivo ad apprezzare da anni. Ma anche, per fortuna, cura dell’orto, della frutta e delle olive che Dio dona ogni giorno. Una vera azienda agricola, quella di Bose a Ostuni, come se per incanto il cielo si sia spostato più giù verso sorella terra. Sabino fa da traghettatore tra questo cielo e questa terra, e il loro olio, vero nettare degli dei, accarezza il cercatore di Assoluto che all’improvviso piomba sulle assolate terre di levante.
Sognano l’est oltre il mare, qui a Bose di Ostuni. Sanno che c’è il grimaldello giusto per aprire la porta della storia prossima, capire gli sbarchi, le guerre, e il possibile abbraccio tra religioni sorelle.
L’ulivo è segno di pace. L’ebraico antico lo eleva a carta democratica popolare. E mentre Sabino mi versa quei suoi miracolosi fagiolini che non esistono in nessuna parte d’Italia, capisco che le mani dell’uomo delle volte fanno dei miracoli e tracciano rotte di geografia sacra.
Bose, Ostuni, crocevia di fedi e di storie di uomini. Contadini e immigrati, monaci e laici, teologia della terra. Ne abbiamo bisogno, oggi, nella nostra ricerca di un cielo misericordioso che ascolti i lamenti della terra del dolore. La pace è dietro l’angolo, lungo la via degli olivi.

Diario d'agosto/1. Domenico, l'ultimo pastore d 'Abruzzo

Domenico è uno degli ultimi pastori d'Abruzzo. Dagli inizi di giugno al venti di settembre se ne sta lì, con le sue pecore e capre, a circa duemila metri, sotto il Rifugio Manzini, appena poco sotto la vetta di Monte Amaro, i quasi tremila della Majella più nascosta. Una piccola grotta fa da riparo. Vive con poche cose: la luce del giorno e il buio della notte, la pasta che si porta da casa e il latte, ovviamente, in abbondanza. Cerca compagnia, Domenico, e buon vino: quando scopre che anche io sono un innamorato di Monte Amaro, ci sono stato ben tre volte ( una faticaccia...mica stiamo sulle Dolomiti!), mi dice: " se vieni lassù mangiamo insieme, ma tu porta lu vine". Giá, il vino, il baratto giusto per un piatto di pasta e un po' di parole consumate in due nel deserto appenninico di una solitudine immensa. Non è più tempo delle vie di transumanza verso il Tavoliere delle Puglie nell'inverno rigido abruzzese: oggi si torna a valle, in approdi naturali di prati d'altura. Il prezzo, giusto, pagato alla modernità.
La sua casa a Fara San Martino è un inno al formaggio di capra. Se lo scopre Carlin Petrini e Slow Food è fatta. Il suo formaggio è uno dei più buoni e genuini che io abbia mai assaggiato. Odori del miglior alpeggio, sentori di erba, delicatezza, armonia e sapidità, ormai fa parte della mia dispensa annuale. Spesso, quando passo a Fara, mi fermo poco nel negozio aziendale di quello che è il tempio riconosciuto della pasta italiana e preferisco, in realtà, andare a casa di Domenico.
Giorni fa era appena tornato dalla sua grotta, di solito ci sta cinque giorni. Torna a casa per desiderio di mura amiche, una doccia, un pranzo e via di nuovo. Il suo viso era un tizzone, altro che abbronzatura artificiale. Si vede che ha come compagno migliore il sole, nei giorni fortunati. Mi ha sorpreso ancora una volta, mentre mi parlava della montagna in fiore, per via delle piogge, davanti ai nipoti che giocavano con il cellulare.
Ho preso il mio formaggio, stavolta in abbondanza, perché quando le capre mangiano l'erba buona e fresca di pioggia il formaggio è divino. Mi ha rincorso la sua voce, porta lu vine...
Domenico, che tu sia benedetto!