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mercoledì 27 agosto 2014

Diario d'Agosto/11. E mi imbattei in una messa tridentina...


Sabato 23 agosto ho partecipato alla messa al Santuario di Nostra Signora della Rovere in San Bartolomeo al mare, località rivierasca del ponente ligure. L’orario, molto comodo per i vacanzieri, è per le ore 21.00: le altre messe nei dintorni volgono per le 17.00, e mal si conciliano con il ritmo balneare. Il posto dove è ubicato il Santuario, invece, è splendido, riparato, lontano il giusto dal mare, e sotto tiro di un vento rinfrescante.
Do un’occhiata all’interno, sobrio al punto giusto: c’è un crocifisso a cui si riferiscono molte guarigioni (così dal dépliant…), il silenzio all’interno è vero, rispetto alle urla e ai schiamazzi che arrivano dalla trattoria antistante l’entrata.
Eppure, c’è qualcosa che non mi convince. Poco prima della celebrazione liturgica, il prete, fuori, parla al cellulare. Si agita. C’è molto caldo ma lui, il prete, è vestito di tutto punto… come una volta… con la talare d’ordinanza che ormai vediamo solo nei film di don Camillo e Peppone. Chissà come farà a resistere a questo caldo, mi domando. Il collo è chiuso dalla divisa ecclesiastica che andrebbe bene semmai per un pieno inverno, eppure la conversazione attraverso lo smartphone ha un qualcosa di surreale, il vecchio e il nuovo insieme.. mah..
All’interno del Santuario una suora fa tutto. Declama i canti, legge le giaculatorie, recita le litanie. Non ci sono famiglie, e bambini. Solo adulti. Un libretto di 500 pagine sui banchi recita: canti sacri. Ben 150 pagine sono dedicate alla Madonna, Regina, e non alla “donna della porta accanto”, come amava definirla don Tonino Bello. Scorgo con avidità il libretto: non conosco un canto, quasi tutti in latino, eppure vado a messa da circa cinquanta anni. Dei canti post-conciliari nemmeno l’ombra. Sequeri, Frisina, chi sono?
Un altro foglio messo sui banchi non cela la voglia di antichi testi. Litanie di riparazione, per il pontefice, benedizioni solenni. Il latino caccia l’italiano.
Comincio a pensare di essere capitato nel covo di una messa tridentina, ma accingo l’anima a respirare il sacro. E comunque, per me, è la prima volta. Mi sento ospite, almeno inatteso.
Il prete, sempre quello del telefonino, entra perfettamente in orario. Ha il tricorno. Se lo toglie e si mette spalle ai fedeli. Non capisco. Eppure ho visto tantissimi santuari o chiese antiche abbracciare la riforma liturgica del Concilio Vaticano II con la costruzione di un altare piccolissimo davanti a quello storico, dove prima i sacerdoti celebravano la messa tridentina. Qui, manco a parlarne.
L’officiante si muove come un birillo. Si gira e rigira su se stesso, tra il momento in cui si volge verso i fedeli  (pochissime volte) e quando invece volta loro le spalle.
Tutto sembrerebbe volgere all’esaltazione del sacro, eppure non è così. Perché, in realtà, tutto sembra avvolto da un senso del ridicolo: il declamare e il gesticolare del prete, il canto sguaiato della suora, la solitudine di una comunità che non c’è, il profumo di un sacro che se ci fosse dovrebbe sentirsi, persino i colori del sacro tacciono inermi.
Mi viene in mente di accogliere l’eucarestia in piedi e con la mano. Poi, ricordo a me stesso, di essere un ospite. Così mi arrendo. L’altare maggiore è chiuso da una specie di cordone di legno che forma però un inginocchiatoio: i fedeli, a turno, si inginocchiano per ricevere la comunione in bocca, e il prete va da una parte all’altra dell’inginocchiatoio come una trottola (circa quattro metri di lunghezza per ospitare circa sei persone genuflette).
La messa finisce. Fuori si sta bene. La gente sta consumando gli ultimi avanzi del pasto, i bambini fanno rumore e qualcuno canta. Rispetto a prima, stavolta il rumore mi abbraccia e sembra una dolce armonia celeste.
Chissà cosa sarebbe successo se non mi fossi inginocchiato e avessi desiderato prendere la comunione sulla mano. Me l’avrebbe data, l’officiante? Chissà.
Intanto mi viene spontaneo recitare un Ave e Maria, fuori. Chissà cosa penserà la “donna della porta accanto”.

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