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martedì 30 settembre 2014

4 Ottobre, in memoria di fratel Carlo

«Oggi Carlo sarebbe molto contento. Le parole e il sorriso di papa Francesco lo avrebbero “galvanizzato” ancora di più». Liliana Carretto, sorella di Carlo, mi ricorda sempre questa considerazione ogni volta che ci incontriamo. Aggiungendo, subito dopo, «con l’accortezza, però, che queste cose però non si scrivono…» (e sapendo, al contempo, che i giornalisti ogni tanto non mantengono la parola) che l’ex maestro, dirigente di Azione cattolica e poi fratello dei Piccoli Fratelli del Vangelo, prima nel deserto del Sahara e poi residente nel convento di San Girolamo presso il grazioso borgo umbro di Spello, alla fine «si sia ripreso la sua rivincita». In sintesi, che la sua vicenda umana e terrena sia stata accolta in toto anche dalla gerarchia e, in questo caso, dal successore di Pietro.
La Chiesa in uscita di papa Francesco è, ancora oggi, ed è stata per i lunghi ventitré anni in cui fratel Carlo ha dimorato in solitudine con Dio e in compagnia degli uomini nel convento di San Girolamo, fino a quel 4 ottobre del 1988, giorno del suo commiato definitivo e sorridente da questa terra, la Chiesa in uscita di Carlo Carretto. Una Chiesa domestica del dialogo, della misericordia, della tenerezza, persino della chiarezza, anche quando dialogo e trasparenza fornivano alibi a polemiche pastorali-ecclesiali, sempre benvenute – diremmo oggi – perché fonte di arricchimento e crescita nell’annuncio del vangelo, o a pretesti per intervenire nel dibattito politico, in omaggio a quella città dell’uomo di lazzatiana memoria, da costruire e da pensare insieme.
Ma la Chiesa in uscita di fratel Carlo rappresenta la sapiente opera di dialogo e di ascolto che un laicato adulto e maturo nella fede (e nella storia), non ha mai smesso di approfondire e praticare. Ripensando alla straordinaria avventura umana di Carlo, oggi possiamo dire, con tranquillità, che lui ci aveva visto giusto. Aggiungendo, però, che la memoria storica e religiosa di fratel Carlo ha senso e valore se, nel quotidiano – sì, questo benedetto “oggi”, che viviamo a volte con fatica e presi da mille fragilità –, anche noi restituiamo allo sguardo mistico sul creato e a uno stile di vita amico dell’uomo e dell’ambiente, l’arma migliore per resistere alle sfide della storia.
Carlo è presente in mezzo a noi con la sua biografia esistenziale, il suo sguardo contemplativo mai disatteso dalle “attese della povera gente”, con le sue lettere dal deserto e la sapiente pratica della compagnia con gli uomini, e con il vissuto di un ambiente, una casa, il convento, la cella, la cucina, il letto, la sala da pranzo, che noi sentiamo “nostri” e riusciamo a far diventare casa di tutti. Una casa che accoglie l’ospite inatteso, nonostante diversità e lontananze.
Una Chiesa aperta e in uscita e una Chiesa casa di tutti. Il 4 ottobre, come ogni anno, ricorderemo Carlo così. Non per una memoria sterile, ma per un nuovo impegno missionario sulle strade del mondo e sulle vie di casa, magari più vicine ma non per questo meno difficili e impervie, che accolgono in sobrietà e letizia chi ancora si domanda “chi è Gesù di Nazareth?”.
Sapendo, senza ombra di dubbio, che la Chiesa è con noi.

mercoledì 24 settembre 2014

La Chiesa italiana sulla via del cambiamento


Da quel 13 marzo del 2013, gran parte dell’opinione pubblica si è come risvegliata sotto l’ombra del cupolone di San Pietro. Tanti, tantissimi, soprattutto i più lontani dalla Chiesa, hanno salutato la “novità” Francesco all’interno di un processo di rinnovamento, più fedele alla Parola che non all’istituzione, atteso per lunghi anni. Altri, come è legittimo, hanno invece fatto notare come questo pontificato non gli vada per niente bene.
Le domande di speranza, tenerezza e misericordia suscitate dall’apostolato di Francesco sono impressionanti. Qualcuno dice che, ultimamente, abbiano avuto una battuta di arresto dovute al fatto che, comunque, Francesco, in quanto capo supremo della cattedra di Pietro, non può non ascoltare chi non la pensa come lui. Vero. Come è vero che i due precedenti papi non abbiano avuto lo stesso atteggiamento di ascolto, molto più propensi invece ad assecondare le opinioni e le scelte fedeli al loro pontificato. In questo senso il pontificato di Francesco è davvero una novità: lo stile dell’ascolto, di pura matrice gesuitica, e della partecipazione alle decisioni sembra una caratteristica fondamentale di questo papa.
Ciò non toglie che alcune idee di fondo appaiono nella mente e nel cuore di Francesco non più rinviabili. La questione del ministero Petrino, sia in rapporto alle Chiese sorelle che all’interno della stessa Chiesa cattolica, vedi i Sinodi e l’apporto delle singole Conferenze episcopali mondiali alla stesura del programma di un pontificato; un’attenzione alla trasparenza finanziaria e gestionale degli enti che contribuiscono a far funzionare la macchina statale di Pietro; e, infine, una questione ecclesiale e pastorale molto importante come la preparazione sacerdotale e l’attaccamento al vangelo dei vescovi, che, come i semplici presbiteri, devono avere l’odore delle pecore e non altro. Insomma, un nuovo annuncio missionario.
Senza grandi giri di parole, è evidente che Francesco non sopporti per niente quell’aura di conservatorismo e di eccesso di tradizione (solo estetica) che invece ancora si coltiva in parecchi ambienti ecclesiastici, e in molti vescovi e cardinali.
Francesco sa che è difficile imporre nuove passioni teologali e pastorali, nuovi slanci per l’annuncio missionario. Sa che la formazione spirituale di quella che finora è ancora la classe dirigente della Chiesa cattolica è nata e si è sviluppata in una dato periodo storico e sotto il pontificato di due papi diversi, nello stile, nel carattere, nel modo di rapportarsi al vangelo, rispetto al papa attuale. Ecco perché è convinto che, al di là di encicliche, esortazioni pastorali o motu proprio, egli abbia uno strumento fondamentale per cambiare la fisionomia della Chiesa cattolica nel mondo: la designazione dei vescovi. Per i cardinali già abbiamo visto delle novità nel recente concistoro, ma, seppur importanti perché eleggeranno il futuro papa, essi non sono così decisivi nel cambiamento della classe dirigente media della Chiesa cattolica quanto i vescovi. Cioè, coloro che guidano il popolo di Dio in ogni angolo del mondo.
Per stare in Italia, nel prossimo anno, avremo un avvicendamento che riguarderà circa 40 vescovi, un quinto degli attuali. Evidente che si tratta di una svolta storica. In precedenza, salvo i casi di diocesi piccole o poco importanti, dove la designazione arrivava attraverso un percorso codificato che partiva dalla Conferenza episcopale regionale fino al nunzio in Italia, per poi passare alla Congregazione dei vescovi, le scelte sono sempre arrivate dall’alto. O per decisioni del papa in persona oppure per una mediazione, tutta politica, tra cardinali aventi un certo seguito oltretevere. È il caso, ad esempio, ma non solo, di Milano, Venezia, Palermo, Napoli, Firenze, Torino, Genova.
Ora, nell’arco di poco tempo, c’è la possibilità di cambiare realmente la classe dirigente della Chiesa cattolica in Italia. Francesco lo sa. E lo sa anche chi non sostiene il papa. Quella classe dirigente che, in molti casi, e per molti anni, ha tenuto le sorti del cattolicesimo italiano dietro il riparo certo di un conservatorismo fine a se stesso o, peggio, in un eccesso di sintonia con una religione civile che ha avuto come unico scopo quello di essere interlocutrice privilegiata del potere politico condensando l’annuncio del vangelo nella difesa dei cosiddetti valori non negoziabili e derubricando la speranza “contagiosa” del vangelo a una sorta di rendiconto tra dare e avere.
Quaranta nuovi vescovi, dunque. Ce ne è abbastanza per capire presto in quale modo cambierà, e se cambierà, la Chiesa italiana.

mercoledì 17 settembre 2014

Le questioni aperte del prossimo Sinodo sulla famiglia


Le posizioni di cinque cardinali conservatori pubblicate in un recente libro sulla comunione ai divorziati risposati aprono, di fatto, il dibattito assembleare del prossimo Sinodo sulla famiglia. Sappiamo, a riguardo, poche ma certe cose. Sappiamo che papa Francesco ha invitato in qualità di esperti personalità della Chiesa di stampo sia “progressista” che “conservatore”: si va da Kasper a Caffarra, tanto per fare due nomi. Il dibattito deve essere vero, realista, ed è bene sentire tutti. In questa visione della Chiesa bergogliana puntata tutta sull’unità ecclesiale c’è l’anima stessa del pensiero e dell’etica gesuitica, ma c’è anche da dire che è una costante dell’azione di papa Francesco. Un atteggiamento di ascolto, quello del papa, sicuramente da applaudire, specie se raffrontato a quello dei precedenti pontefici, molto più sensibili ad ascoltare opinioni vicine alle loro.
Che discussione sia, dunque. In stile evangelico. Sappiamo che questo Sinodo discuterà, anche con vigore, ma non prenderà decisioni in merito alla pastorale familiare, visto che queste saranno prese nel prossimo Sinodo ordinario del 2015. Sappiamo che i media saranno attenti in particolare alle diatribe sorte in merito alle note affermazioni di Kasper, che poi riprendevano tanti discorsi e “desiderata” del papa in persona, riguardante un atteggiamento di ascolto, dialogo e misericordia nella difficile pastorale dei divorziati, correndo il rischio di tralasciare il resto del dibattito sinodale, che invece dovrà parlare a tutto tondo della famiglia. Le sue fragilità, il suo futuro, la sua capacità di vivere la fede nelle difficoltà delle vita quotidiana, le situazioni più problematiche legate al sesso, all’età, al lavoro che non c’è. Speriamo davvero che il dibattito venga raccontato sui media nella sua totale ricchezza di contenuti.
Ma, ho l’impressione, che qualche volta si faccia fatica a rendersi conto della reale resa dei conti che c’è intorno a questo Sinodo specie riguardo al mondo tradizionalista, messo a dura prova dalle novità bergogliana. Parlare di misericordia, ascolto, tenerezza, con il sorriso sulle labbra come fa Francesco, vale molto di più di un’enciclica o di un motu proprio. E cedere terreno proprio sul terreno della famiglia appare ai loro occhi molto di più di un peccato veniale. La battaglia è molto più ostinata di ciò che si vede: il mestiere, in questo senso, lo sanno fare bene. Ecco perché la “resistenza” a papa Francesco negli ultimi tempi ha ripreso vigore, annoverando tra i suoi ranghi non solo i tradizionalisti, ma anche altre personalità non del tutto “contente” del nuovo pontificato. La misericordia scardina la legge e l’ordine: peggio di così si muore, pensano i “resistenti”.
Nella Chiesa di papa Francesco, apertamente e realmente conciliare e sinodale, c’è posto per tutti. Anche e soprattutto per i laici. Ecco perché a me pare sia venuto il momento che intellettuali, associazioni laicali, movimenti ecclesiali, semplici fedeli, si facciano sentire dall’istituzione ecclesiastica, e quindi anche all’interno di un Sinodo, con delicatezza, tenerezza, e anche con coraggio, accogliendo dentro le proprie istanze la gratuità e il sorriso del vangelo, al posto del rigorismo morale e del sacro ridotto a legge.
Francesco si aspetta un contenuto alto e un parlare chiaro. Credo che si aspetti anche una partecipazione attiva da parte dei laici, d’altronde il questionario famoso delle 38 domande aveva, di suo, questo significato. Dirsi le cose con chiarezza non significa darsi battaglia. E’ finito, soprattutto per i laici, figuriamoci per il clero, il tempo della mediazione. Il Sinodo dirà molte cose e sarà anche una cartina di tornasole per immaginare un futuro diverso per la Chiesa cattolica.
I tradizionalisti combatteranno la loro buona battaglia per un certo rigorismo teologico e morale. A chi vive ogni giorno i problemi normali delle famiglie e delle parrocchie il compito di non rimanere inerti ma di dire, con l’esempio e con la parola, che il tempo del papa-re è finito ed è in arrivo una nuova aurora dove i figli (qualsiasi, neri, bianchi, uomini, donne - soprattutto -, persino preti e laici) abbracceranno insieme il padre. Senza medaglie di primigenia.

lunedì 15 settembre 2014

Don Puglisi, i profeti che non dimentichiamo


Articolo apparso sul sito web dell'Azione cattolica italiana
I giusti salveranno la terra. La scrittura sacra oggi ha il cuore e l’anima di Pino Puglisi. Sono passati ventuno anni da quando don Pino fu ucciso dalla mafia quel 15 settembre 1993. Anni in cui la mafia ha continuato  a mietere le sue vittime, ma “tempo buono” anche per tutti coloro, e sono tanti, che hanno creduto, e credono tutt’ora, che la mafia la si combatte con il coraggio della normalità ed educando le giovani generazioni. “Libera”, l’associazione contro le mafie voluta da don Ciotti, altro prete scomodo, promossa anche dall’Azione cattolica, è l’esempio che qualcosa si può fare quando la società civile decide di muoversi.
Ce lo dice la storia e la vita di don Pino Puglisi. Aveva appena compiuto 56 anni, il prete dei cittadini “ribelli per amore” di uno dei quartieri a più alta infiltrazione mafiosa in terra siciliana. Un colpo di pistola pose fine alla sua vita spesa per l’educazione alla legalità con i giovani e i bambini del quartiere. E un anno e mezzo fa, un 25 di maggio che rincorre memoria e profezia, la Chiesa lo ha proclamato beato.
Le vie della santità percorrono a volte strade lunghe e inattese. Anche se la profezia, a volte, si fa fatica a riconoscerla. Eppure i nostri profeti, i nostri amici della “porta accanto”, i nostri don Pino, don Tonino Bello, mons. Oscar Romero, quelli che “odorano di pecore”, ci indicano che la via del vangelo può essere, oggi, utopia possibile.
Le nostre città, le nostre parrocchie, perfino la nostra politica può essere percorsa dal vento della profezia. La santità non è solo un percorso ascetico per spiriti mistici, ma anche e soprattutto una predisposizione a vivere intensamente l’incontro con l’Altro e ad amarlo sino in fondo, anzi “sino in cima”. Il sacrificio di don Puglisi, così come l’esempio di tanti preti sparsi nel paese che spesso lavorano nelle periferie e nel silenzio – come non ricordare il prete degli ultimi e degli emarginati, don Andrea Gallo, morto proprio nei giorni in cui la Chiesa proclamava don Puglisi beato – ci dicono che il vangelo è davvero rivolto a tutti, ricchi, poveri, dimenticati e ammalati, persi e ritrovati, emarginati e lontani. E che la giustizia è un affare non solo dello Stato ma anche della coscienza umana, via privilegiata all’incarnazione del vangelo della santità.
Don Puglisi rappresenta, con la sua vita, questo anelito di amore e servizio. Le sue attività principali, il suo essere prete ed educatore, la liturgia del quotidiano, il Comitato intercondominiale, le Sorelle dei Poveri e il Centro Padre Nostro hanno preoccupato e infastidito quel sistema politico-mafioso perché sono la dimostrazione vivente che una rivoluzione culturale ed educativa, se parte dal basso, può sconvolgere i cuori e liberare la cittadinanza, restituendole la dignità perduta.
È il miracolo della Chiesa della profezia.
Oggi, come ieri e come sempre, abbiamo bisogno di profeti veri, di santi veri perché uomini dentro la vita del mondo. La profezia evangelica è il tratto trainante della santità. E ogni buon profeta, come don Puglisi, don Tonino, Oscar Romero, perfino quel burbero con il sigaro di don Gallo, restituiscono all’umanità intera la speranza che qualcosa può cambiare. In politica, nella città degli uomini, nel tempio del Dio che amiamo. Una sorta di abbraccio tra cielo e terra che rende la profezia, e questi nostri profeti, non “statue da museo”, ma memoria vivente di un diritto alla solidarietà, alla libertà e alla giustizia che spesso si paga “a caro prezzo”.
La santità è soprattutto un modo per vivere in pienezza la nostra umanità. È il sorriso dolce e sincero di don Pino, quello stesso sorriso che ha accolto, con il martirio, il compimento di una vita donata totalmente e senza condizioni.

mercoledì 3 settembre 2014

Papa Francesco e i resistenti alla riscossa


Aveva ragione chi scriveva e pensava prudentemente, nei primi sei mesi del pontificato bergogliano, che la resistenza a papa Francesco non avrebbe indietreggiato. Anzi, con il tempo giusto, si sarebbe organizzata, contata, e avrebbe cominciato, pian piano, a muovere prima la fanteria e poi le truppe corazzate.
Cominciamo dall’evento prossimo, il Sinodo sulla famiglia di ottobre. Per adesso buio pesto. A parte l’Instrumentum laboris sulle sfide della pastorale sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione distribuito ai media, e redatto per gli specialisti, cosa succederà realmente nel consesso sinodale? I due contendenti della singolar tenzone, i card. Kasper e Muller, non aspettano altro che dirsele attraverso i media, perché, almeno mediaticamente, non rappresentano altro che i capofila dell’attuale contrapposizione tra chi è favorevole a una pastorale di accoglienza riguardo ai divorziati-risposati e chi no. Ma è chiaro che dietro questo atteggiamento “culturale” si nasconde l’anima di uno scontro molto più duro tra l’anima tradizionalista e conservatrice della Chiesa cattolica, cresciuta soprattutto sotto (e all’insaputa) del pontificato di Benedetto XVI, e chi invece, forte del nuovo vento voluto da papa Francesco, ha inteso dare fondo a sentimenti di gioia e nuova speranza per una Chiesa del dialogo. Mentre, a volte, è più utile lavorare nel silenzio delle stanze che contano.
Certo, alla Cei c’è un uomo e un prete del calibro di mons. Nunzio Galantino, che sta letteralmente scardinando il lessico “istituzionale” e (persino) pastorale della Chiesa italiana, orfana di Berlusconi e di valori non negoziabili, e il Sinodo sulla famiglia ha due segretari per niente allineati al vecchio corso, il card. Lorenzo Baldisserri e l’attuale arcivescovo di Chieti, il teologo Bruno Forte, e per di più, con calma tutta gesuitica, il papa sta cambiando anche parecchi membri delle Congregazioni e dei Pontifici consigli.
Ma c’è un “ma”. Che va oltre quel vangelo degli anni duemila che è l’Evangelii Gaudium. Papa Francesco indica un modo d’agire, regala al mondo l’immagine evangelica della Chiesa ospedale da campo dopo la battaglia, ma ai resistenti (che sono tanti), non gliene importa nulla di tutto questo. L’importante è che il papa non scriva, non ordini, non legiferi, non metta nero su bianco. La riforma della curia si è un po’ impantanata nelle sabbie mobili della curia stessa. Il messaggio del papa è stato chiaro: pensateci voi a riformare voi stessi. Figuriamoci! Del famoso questionario compilato dal popolo di Dio per il Sinodo prossimo non si sa più nulla. Verrà fuori durante le riunioni? Qualcuno ne prenderà atto? E sullo Ior, aspettiamo nei fatti cosa accadrà nei prossimi anni, quando le acque si saranno calmate e magari Francesco sarà altrove.
I tradizionalisti sono in piena estasi. Vanno a trovare Benedetto XVI, il papa emerito che aveva promesso che si sarebbe rinchiuso in preghiera e solitudine. Aumentano, dove trovano vescovi compiacenti (e ce ne sono molti di più di quello che si creda…) le loro pretese di celebrare la Messa tridentina. Il vescovo di Ferrara invita la popolazione a non fare elemosina per strada perché così si incrementa la delinquenza. Altri tirano fuori gli artigli rimasti in letargo per un po’, e non si danno pace sui valori non negoziabili.
Alla Cei tutti davano per scontato, per novembre, un cambio al vertice visto che si dovrebbe approvare il famoso regolamento sull’elezione del Presidente stesso. Invece l’attuale Presidente, il card. Bagnasco rimane, fino alla sua naturale conclusione, nel 2017. Il gesuita Bergoglio è davvero un gesuita, e una Chiesa di vinti e vincitori proprio non la sopporta: la Chiesa per Francesco è e non potrà essere che unita. Progressisti e conservatori insieme (senza esagerare...).
Insomma, i resistenti si danno da fare. Capiscono che c’è margine di manovra. Il punto, oggi, non è quanto essi riescano a far valere le loro ragioni, peraltro lontane dalla storia di una Chiesa “in libera uscita”. Ma a preoccupare un po’ è la voce di coloro che, invece, si aspettavano, finalmente, una Chiesa diversa, libera, coraggiosa e sulla strada della profezia del vangelo. Una voce che ha trovato subito molti simpatizzanti, laici, atei, agnostici, o lontani dalla Chiesa. Una voce che si chiede, oggi, se è ancora ascoltata e soprattutto se ha libero acceso a una riforma complessiva della Chiesa, che è non solo teologale ma anche e soprattutto istituzionale. Le domande di nuova speranza e nuovo annuncio missionario non potranno rimanere inevase, dopo che sono state accolte e riconosciute da papa Francesco.
Su questo Bergoglio non potrà commettere errori. Più di una nomina di curia, più di una riforma della stessa, rimane il problema se la Chiesa tutta è davvero pronta a incamminarsi sulla strada del sorriso e dell’abbraccio con l’altro, abbandonando definitivamente la pratica di una religione civile fine a se stessa e al potere che talvolta logora anche chi ce l’ha.
I prossimi mesi ci diranno qualcosa in più. Ma la battaglia impazza, e Francesco comincia a essere stanco.

martedì 2 settembre 2014

La sobrietà come ultimo antidoto alla deflazione


La nostra generazione ha conosciuto solo un termine economico: inflazione. Era il dolce gabello della lira italica, aggiustata e costruita per i salari in aumento, i consumi in eccesso, i tassi bancari con segno più”. Una moneta, la lira, in tempi di magra, persino svalutata. Linflazione che sale è segno che leconomia si muove, così almeno scrivono i manuali. Certo, bisognerebbe vedere in quale direzione si muove. Ma, oggi, questo problema è superato. Siamo in deflazione, come nel lontano 1959. Tutto fermo. I consumi non crescono, figuriamoci i salari, le famiglie non spendono. E, nellattesa che la frutta scenda di prezzo, poca gente al mercato. Contribuendo, quindi, ancor di più alla crisi.
È lItalia di questa estate duemilaquattordici dei segni meno e del tempo autunnale. Il termine deflazione sembra non appartenere più ai manuali di economia: fa parte ormai dello status di precariato sociale che avvolge la nostra penisola in una spirale di depressione cronica. Nonostante un giovane presidente del Consiglio continui a spronare le famiglie e i consumatori in un atto di fede nel buon futuro. I provvedimenti maggiori del Governo portano il nome, appunto, di sblocca-Italia.
Eppure, al di là dei termini giornalistici, basta percorrere le autostrade del belpaese per accorgersi dellimpasse. Non c’è proprio nessuno. Si viaggia che è un piacere, niente file oceaniche, e il famoso esodo di agosto se ne è andato a dormire. E sì che già da un paio danni lAutosole era lo specchio dei nostri giorni, con tutte quelle automobili cariche allinverosimile di ogni cianfrusaglia (proprio come quaranta anni fa), in partenza per i paesi natii e con a bordo i nonni (altrimenti chi lo paga il viaggio e la sosta allautogrill?).
Anticipavano il presente. Così, oggi, poche automobili familiari, e pochi nonni: evidentemente devono aver finito la cassa comune. La pensione serve a tante cose: ad alleviare i disagi del figlio disoccupato, a pagare le bollette dellaltro figlio, e a regalare la vacanza-studio allestero al caro nipote.
C’è crisi, si vede. Non c’è viaggio. Non c’è sogno di futuro diverso. Nessuno che sorride allautogrill, nessuno che si arrabbi. Ci si abitua pian piano a raccattare le piccole briciole rimaste. Gli stabilimenti balneari vuoti, le montagne libere dal chiacchiericcio inutile, le autostrade vuote dei rumori, le parole orfane di racconti.
C’è solo un risvolto della medaglia che il termine deflazione non contempla: sobrietà. Sì, esatto: sobrietà, e non risparmio, come nel dopoguerra abbiamo imparato a conoscere, anche perché oggi non si risparmia più niente.
Sobrietà, dunque, come una parola che evoca quasi scenari spirituali francescani. E sobrietà, come ultimo antidoto alleuro tedesco e alla spesa pubblica italiana, propiziatrice di ethos positivo e di pratica virtuosa a quel (ri)abituarsi al fare con poco.
Forse i grandi economisti e i ricchi banchieri dovranno aggiornare il lessico della crisi economica. La sobrietà, che gli italiani quando vogliono sanno praticare molto bene, sconfiggerà la deflazione. E anche linflazione. È una parola che va a braccetto con bene comune, e che dovrebbe trovare posto nei nostri comportamenti pubblici, come altolà allo sperpero dei consumi, e come uso buono e consapevole di alcune pratiche quotidiane di attenzione al denaro, cominciando dal bilancio familiare.
Talvolta (spesso) la macroeconomia dipende dalla microeconomia. È un atteggiamento culturale ed etico importante che, più di provvedimenti governativi, che pure servono, può essere davvero il grimaldello giusto per sbloccare il nostro paese. E può tornare utile come pratica virtuosa che viene dal basso, sperando che si allarghi presto nella sfera pubblica.