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martedì 25 novembre 2014

Dietro il disincanto per la politica, l'Italia al collasso

Chiunque canti vittoria per le elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria, si rende partecipe di un azzardo politico ed etico. Non c’è, infatti, da festeggiare nulla. Il messaggio che arriva dalle urne, seppur limitato a due sole regioni, stavolta è chiaro: il popolo italiano non ne può più. Oggi si è limitato a disertare le urne (38 per cento in Emila Romagna e 43,8 per cento in Calabria), e la prossima volta? Il Belpaese sta esplodendo di rabbia. La crisi economica attanaglia sempre di più le famiglie e il tempo presente è inerme di fronte a un futuro ancor più incerto. Per Matteo Truffelli, presidente nazionale di Ac, interpellato dal Sir, «il dato sull'astensionismo alle regionali di ieri parla chiaro: sono state elezioni con tanti vinti e nessun vincitore. La sconfitta principale è della politica, che non riesce a uscire dalla crisi di credibilità che la avvolge ormai da anni. Occorre una politica che non volga lo sguardo al consenso immediato, ma sia orientata al futuro».
Le città metropolitane ribollono di sentimenti avversi all’“altro”, perché l’altro (leggi lo “straniero”, l’immigrato) oggi rappresenta la faccia di chi ci toglie il lavoro. E poco importa se recenti dati ci dicono che se non ci fossero “loro”, noi, l’Italia, starebbe ancora peggio. Gli stranieri regolari, 200 nazionalità diverse, in Italia sono 4.922.085. Gli occupati sono 2.323.492. Una media molto alta. Il gettito fiscale e contributivo degli occupati stranieri nell’anno 2012 è del 4,4 per cento, mentre non si considera affatto gli enormi guadagni relativi al lavoro in nero relativi ai patti, non scritti, tra aziende e immigrati. Mentre il Corriere della Sera ha calcolato che l’attuale gettito tributario degli stranieri, oggi, è intorno ai 5 miliari di euro l’anno. Una piccola legge di stabilità.
E allora? Allora le città scoppiano di risentimento e rabbia. Le periferie urbane, ma anche gli agglomerati delle province più lontane, sono il crogiuolo di sentimenti repressi per molto tempo e che hanno come primo sfogo la politica. E dopo? A Roma il sindaco è stato costretto a rivedere alcune scelte di politica immigratoria perché un intero quartiere si è ribellato a degli insediamenti considerati illegittimi e arbitrari. Subito dopo è stato un altro quartiere a scendere per strada. Ma c’è poco di razzismo in tutto ciò. A prendere le redini del malessere sociale è la recessione economica che sta indebolendo un tessuto umano e civile già provato da anni di mala politica.
Solo papa Francesco parla di pane e lavoro. Ogni giorno: dalla residenza di Santa Marta ai consessi internazionali, dalle udienze in San Pietro ai discorsi pubblici. Solo il papa. Mentre la politica, la politica delle grandi istituzioni europee e mondiali, si chiude a riccio dietro la riedizione di ricette neoliberiste o neomonetariste da copione, inserite però in un contesto globale e geopolitico completamente cambiato. Il pane non entra più nei discorsi dei grandi banchieri, il lavoro (che non c’è) è destinato a improbabili percentuali di tassi di cambio che non hanno nulla a che vedere con l’etica del lavoro fondata sul sostentamento economico e la dignità per l’uomo.
E la disoccupazione, come la risolviamo? Buio pesto. E la mancanza di occasioni future? Si arranca. Questo fa paura agli italiani. Più che il colore della pelle diversa, che comunque è preso come paragone per tramutare in voti il malcontento generale, in Italia come nel resto d’Europa.
Ma le città, i quartieri, le periferie più lontane, non hanno più pazienza di ascoltare vuoti proclami. L’impressione generale è che in una situazione di degrado economico come l’attuale ogni categoria sociale cerchi la via negoziale per se stessa, evitando un confronto pubblico con tutti gli altri attori in causa. Mai come in questo momento l’urgenza del bene comune è da rivalutare: in amministratori capaci, e in politica di buon senso, dove le famiglie, e il cosiddetto ceto medio, tornino a essere il volano di un’Italia che, altrimenti, rischia il collasso.
C’è sempre lui, Francesco, a tenere alto il morale di chi non ce la fa più. Ma il tempo a disposizione è poco, prima che le città diventino polveriere non più governabili.

venerdì 21 novembre 2014

Ecco la grazia (a caro prezzo) di papa Francesco

Papa Francesco oggi a Santa Marta: «io penso allo scandalo che possiamo fare alla gente con il nostro atteggiamento, con le nostre abitudini non sacerdotali nel Tempio: lo scandalo del commercio, lo scandalo delle mondanità … Quante volte vediamo che entrando in una chiesa, ancora oggi, c’è lì la lista dei prezzi per il battesimo, la benedizione, le intenzioni per la Messa. E il popolo si scandalizza». E ancora: «Ci sono due cose che il popolo di Dio non può perdonare: un prete attaccato ai soldi e un prete che maltratta la gente. La Redenzione è gratuita».
Giusto, direbbero (quasi) tutti. Peccato che, invece, su questo versante, alcuni presbiteri non ci sentano proprio. Abituati alle agiatezze del denaro e a uno spregiudicato, nonché medievale, uso del prezzario dei servizi sacramentali. Si sa, gran parte dello stipendio di un sacerdote, proviene, più che dallo stipendio che passa la Cei, o dagli emolumenti che arrivano dall’insegnamento dalla religione, esattamente dal prezzo dei sacramenti: battesimi, comunione e cresime, matrimoni, funerali, e prima di tutti le intenzioni per la Messa. Più defunti da far memoria, più soldi guadagnati. Senza sconto.
Prezzi fissi, o variabili? Conta poco. Quello che interessa è la chiarezza e la trasparenza, specie se da quelle parti transitino migliaia di euro al mese.
Domanda: quante parrocchie hanno un Consiglio pastorale e un prete che ha il coraggio di far pubblicare il bilancio parrocchiale? Sia chiaro, qui nessuno osa mettere il naso nelle tasche dei preti. Mi pare che nemmeno l’invettiva di papa Francesco sia rivolta all’aspetto sociologico del fare bene il prete. Qui si tratta, invece, di pensare ai nostri preti come fedeli annunciatori della buona notizia, che è Gesù. E Gesù, mi pare, non amava il mercato. Nessuno si mette a fare il moralizzatore dicendo che un presbitero debba tenere una condotta eticamente ineccepibile nel gestire il suo (suo? o della parrocchia?) capitale finanziario, perché altrimenti “è brutto da vedere”. C’è di mezzo, e meno male, Gesù di Nazareth: lo stile evangelico è più importante della Parola, talvolta annunciata e poco praticata.
C’è anche un risvolto teologico in tutto ciò: la Redenzione è gratuita. Cioè non si compra a suon di euro. Tradotto: la grazia è, di bonhoefferiana memoria, davvero a caro prezzo, ma non nel senso del vil denaro.
Ma è anche vero che i nostri bravi parroci non possano fare molto in questo senso, se i loro vescovi non dirimano la questione a livello di carte e bolli. Non c’è una normativa che esiga una trasparenza finanziaria, basterebbe in fondo inserire un codicillo nelle norme che attuano i  Consigli pastorali  e sarebbe fatta. Ma non è così.
E, allora, che fare? Aiutiamo i nostri preti. Consigliamoli, rendiamo la loro predicazione pubblica e i loro servigi sacramentali pubblici. Alla luce del sole.

E il bilancio parrocchiale? Bene affisso in bacheca. Le intenzioni per le messe? Un bravo sacerdote sa quando è il momento di preferire una preghiera in famiglia, sul luogo di lavoro, con gli amici. Per la Messa c’è tempo, soprattutto se è gratis.

giovedì 13 novembre 2014

Né pace e giustizia, se non guardiamo ai poveri

Papa Francesco non le manda a dire, nemmeno ai leader politici del G20. Facendo perno su una solida tradizione diplomatica vaticana (celebri le posizioni di San Giovanni Paolo II in tema di politica economica e sviluppo del pianeta, e anche le parole e le encicliche del beato Paolo VI), ha inviato una lettera a Tony Abbott, primo ministro dell’Australia, in vista del vertice dei Capi di Stato e di Governo dei 20 Paesi con le maggiori economie (G20), che si svolge a Brisbane nei giorni 15 e 16 novembre. Un papa molto deciso a confrontarsi con le grandi superpotenze e con le economie forti che determineranno, in un presente-futuro, come il pianeta uscirà fuori dal tunnel della recessione economica globale.
C’è tutto papa Francesco in questa lettera. I suoi incontri pastorali, e il suo anno e mezzo di pontificato vissuto accanto alle periferie esistenziali e lungo la via di una Chiesa in uscita che non ha paura di confrontarsi con il mondo “fuori” e lontano. Ci sono i lavoratori di Cagliari («dal lavoro preparatorio è emerso un punto cruciale, vale a dire, l’imperativo di creare opportunità d’impiego dignitose, stabili e a favore di tutti. Questo presuppone e richiede un miglioramento nella qualità della spesa pubblica e degli investimenti, la promozione di investimenti privati, un equo e adeguato sistema di tassazione, uno sforzo concertato per combattere l’evasione fiscale e una regolamentazione del settore finanziario, che garantisca onestà, sicurezza e trasparenza»); c’è l’esortazione Evangelii Gaudium nelle sue pagine dedicate agli squilibri di un sistema geo economico mondiale che lascia da parte le povertà e arricchisce, ormai, solo pochi («nel mondo, incluso all’interno degli stessi Paesi appartenenti al G20, ci sono troppe donne e uomini che soffrono a causa di grave malnutrizione, per la crescita del numero dei disoccupati, per la percentuale estremamente alta di giovani senza lavoro e per l’aumento dell’esclusione sociale che può portare a favorire l’attività criminale e perfino il reclutamento di terroristi. Oltre a ciò, si riscontra una costante aggressione all’ambiente naturale, risultato di uno sfrenato consumismo e tutto questo produrrà serie conseguenze per l’economia mondiale»; c’è l’eco di una riflessione sull’ambiente che presto troverà forma in un enciclica appositamente dedicata («formulo queste speranze in vista dell’Agenda post-2015, che sarà approvata dalla corrente sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, che dovrebbe includere gli argomenti vitali del lavoro dignitoso per tutti e del cambiamento climatico».
Ma c’è di più, per papa Francesco. C’è da stimolare l’opinione pubblica a rendersi conto che una giustizia redistributiva dell’economia globale è possibile. E c’è da uscire da una recessione economica che induce gran parte del pianeta a sentirsi tutti precari. E poi il suo accorato appello contro le guerre. E chi fa il commercio di armi. Il mondo intero si attende dal G20 un accordo sempre più ampio che possa portare a un definitivo arresto nel Medio Oriente dell’ingiusta aggressione rivolta contro differenti gruppi, religiosi ed etnici, incluse le minoranze. «Dovrebbe inoltre condurre a eliminare le cause profonde del terrorismo, che ha raggiunto proporzioni finora inimmaginabili; tali cause includono la povertà, il sottosviluppo e l’esclusione. È diventato sempre più evidente che la soluzione a questo grave problema non può essere esclusivamente di natura militare, ma che si deve anche concentrare su coloro che in un modo o nell’altro incoraggiano gruppi terroristici con l’appoggio politico, il commercio illegale di petrolio o la fornitura di armi e tecnologia. Vi è inoltre la necessità di uno sforzo educativo e di una consapevolezza più chiara che la religione non può essere sfruttata come via per giustificare la violenza».
Una lettera, questa di papa Francesco, che va anche oltre lo sforzo diplomatico. Al cuore del problema ci sono le persone, sole nelle loro insicurezze esistenziali o prese dai lacci della recessione e della precarietà. La voce del papa è fin troppo chiara su questo versante: una mentalità nella quale le persone sono scartate non raggiungerà mai la pace e la giustizia.
Prima i poveri e gli emarginati, poi il resto. L’uomo prima di una qualsiasi politica economica. Quasi una voce isolata, quella di Francesco. Mentre nel mondo le grandi multinazionali globalizzate ormai detengono il potere, e contano di più delle decisioni dei governi centrali.

Sarebbe ora di ascoltarla, questa voce che sa di profezia.

venerdì 7 novembre 2014

Mons. Romero beato. Ecco una buona notizia


La notizia è arrivata via web nel giorno dell’allerta meteo per Roma. Inaspettata, per molti. Ma benedetta. L’ha data mons. José Luis Escobar, arcivescovo di San Salvador, al clero della sua diocesi, raccontando di averla saputa direttamente dalla viva voce di papa Francesco. Monsignor Oscar Arnulfo Romero sarà beatificato l’anno prossimo. Non si sa ancora la data, né il luogo. Ma la notizia c’è, ed è arrivata come un fulmine a ciel sereno.
Una beatificazione, quella di mons. Romero, il vescovo di San Salvador ucciso mentre teneva l’ostia in mano dagli squadroni della morte del suo paese il 24 marzo 1980, attesa da anni, anche se di fatto, non ancora ufficializzata dal Vaticano. Un martire, e un profeta, che è stato per molti campesinos latino americani, ma anche per molti cristiani occidentali in cerca di testimonianze profetiche, l’apostolo della buona battaglia che non arretra di fronte al male e alle minacce di morte.
Sì, un vescovo che ha saputo realmente calarsi a ruolo di pastore del suo popolo, in anni difficili, dove la democrazia era una parola sbagliata lasciata stare in bocca alle dittature militari che, nel frattempo, lasciavano per terra morti, dispersi e una serie di ferite ancora non curate. Il popolo e la terra: le due anime di mons. Romero. Una terra da coltivare e amare. E un popolo al quale è stato vicino: lo ha soccorso, curato, confortato spiritualmente, aiutato a pregare e a trovare la forza di appagare la fame.
Ecco perché, per il popolo salvadoregno, e non solo da oggi, mons. Romero è più di un santo da venerare. Semmai è l’esempio concreto di come democrazia e uguaglianza facciano rima con fraternità e comunione.
Per noi residenti dall’”altra parte del mondo”, Romero invece è stato il testimone d’obbligo – per via di un martirio nell’atto di consacrare la sua vita a Dio – per assaggiare la profezia evangelica che non è, come pensano alcuni, utopia irraggiungibile o sogno infranto. Il valore del martirio di Romero, nel momento in cui papa Francesco, e con esso la Chiesa tutta, si pronuncia a proclamarlo beato, sta nell’attualità della buona notizia. Disarmante nella sua vicinanza all’evangelio. Per i cristiani e i “lontani” dell’Occidente ricco, la beatificazione di Romero va “oltre” la bella notizia in sé, per approdare invece a un’autentica svolta di attenzione ecclesiastica che si pone in vicinanza ai drammi della povertà e dell’ingiustizia che invadono il mondo.
Romero è dei salvadoregni, ed è giusto che sia così. Ma è anche, per vie diverse, anche nostro. E di tutti coloro che per tanti anni, ogni 24 marzo, andavano alla basilica dei Santi Apostoli in Roma a far memoria di una Chiesa vicina ai poveri. C’erano don Tonino Bello, don Luigi Di Liegro, don Luigi Bettazzi, i tanti profeti (a volte) dimenticati della buona battaglia che odoravano di “buona notizia”. 
Con mons. Romero, il Vangelo ha contaminato la storia. Le ha dato una mano per aggrapparsi al filo della speranza e delle tenerezza. Quella misericordia che adesso, con papa Francesco, questa Chiesa sta sperimentando lungo le periferie dell’esistenza.